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La leggenda di Enea nel Lazio e l'Eneide di Virgilio - IA

La leggenda di Enea fondatore di Roma – La documentazione archeologica su Roma nell'epoca della formazione della leggenda – IIC

L'AREA SACRA DEL FORO BOARIO: IL TEMPIO ARCAICO

Le fortunate esplorazioni archeologiche, iniziate più di quaranta anni orsono e tuttora in corso in quella zona alle pendici del Campidoglio, verso il Tevere, nota come Area Sacra di S. Omobono, hanno portato un contributo notevole alla conoscenza del contesto storico-culturale di Roma, in particolare per l'ultimo periodo dell'età regia e l'inizio della repubblica (VI prima metà del V secolo a.C.).

Pertanto una selezione significativa del numeroso materiale architettonico e votivo, rinvenuto nell'Area Sacra, viene presentato in questa rassegna per esemplificare e chiarire l'aspetto architettonico-monumentale del santuario e il livello artistico e sociale della città in questo periodo.

Il carattere sacro dell'Area sembra aver avuto inizio nel VII secolo con un culto all'aperto testimoniato dalla scoperta di una fossa per sacrifici presso la quale era, tra i resti combusti, una grande quantità di ossa di animali, molti dei quali allo stato fetale, appartenenti alla specie suina, bovina, ovina.

La più antica fase monumentale è invece documentata dai resti del podio di un tempio arcaico che ha avuto, nell'ambito del VI secolo, un totale rifacimento.

Le fonti antiche ricordano nel Foro Boario l'esistenza di due templi dedicati rispettivamente alla Fortuna (Livio X-46, 14; Dion. Hal. IV-27,7) e alla Mater Matuta (Livio V-19,6; Ovid., Fasti VI-480) e ne attribuiscono la dedica di entrambi a Servio Tullio (data tradizionale di regno 578-534). La singolare concordanza tra i dati della tradizione e i risultati delle scoperte archeologiche è del massimo interesse ed è stata più volte messa in evidenza dagli studiosi.

La parziale esplorazione dell'Area, soprattutto negli strati più profondi ove sono i resti del tempio arcaico, non consente per ora di risolvere il problema relativo alla esistenza o meno di due templi gemelli secondo quanto attestato nelle fonti antiche e confermato dai resti dell'età repubblicana, né è per ora possibile sapere con certezza a quale delle due divinità debba essere riferito l'edificio ritrovato.

Questo ha fornito, a causa della limitata superficie esplorata, elementi planimetrici troppo scarsi perché si possa con assoluta certezza conoscerne le dimensioni e la struttura. Tuttavia sulla scorta dei dati finora forniti è possibile la ricostruzione di un tempio di tipo tuscanico a pianta quasi quadrata, con i lati corti di m. 10,60-11 di larghezza, con un pronao chiuso da due muri (in antis), accessibile da una gradinata sulla fronte e una cella in mattoni crudi racchiusa da alae.

Una copertura lignea, protetta da tegole ed embrici in terracotta, formava il tetto ed una decorazione in terracotta policroma ricopriva le strutture lignee sulla fronte e sui lati, svolgendo nel contempo una funzione ornamentale.

Questo tempio, il più antico che si conosca in ambiente romano, ha avuto, come s'è detto, nell'ambito del VI secolo due fasi costruttive che ne hanno modificato in maniera limitata la pianta, ma ne hanno determinato il completo rifacimento della parte decorativa.

La primitiva costruzione, innalzata nei primi decenni del VI secolo, era caratterizzata da un podio a blocchi di tufo rosso, di m. 1,40 circa di altezza, e da una decorazione in terracotta con motivi di chiara ispirazione corinzia.

A ridosso del podio, nel lato posteriore di questo edificio, è stato ritrovato nelle ultime campagne di scavo (1977-80) un deposito votivo solo in parte esplorato in cui era stata accuratamente deposta, in cataste ordinate, una grande e per noi preziosa quantità di oggetti offerti in dono alla divinità del santuario. La deposizione del materiale, che presenta oggetti databili nell'arco della prima metà del VI secolo, deve essere avvenuta negli anni intorno alla metà del secolo, poiché questo è il limite cronologico più basso offerto dal materiale conservato.

La base del deposito è invece costituita dal piano di calpestio dell'edificio formato da una massicciata di scaglie di tufo in cui sono frammenti di bucchero, di ceramica corinzia. Il livello sottostante nel quale sono stati ritrovati frammenti di ceramica d'impasto, genericamente databili nell'arco del VII secolo, è quello che precede la fase monumentale dell'area.

Gli anni intorno alla metà del VI secolo segnano con ogni verosimiglianza il rifacimento e un totale rinnovamento del tempio serviano. Un nuovo podio, di sagoma più articolata, fu addossato al precedente, ampliando quindi la superficie dell'edificio. La sua decorazione architettonica, caratterizzata dal punto di vista iconografico e stilistico da una forte impronta greco-orientale, testimonia la rapida penetrazione e l'assimilazione in ambiente romano di schemi decorativi e temi mitologici propri del mondo greco (nn. C 2, C 3).

Gli stretti rapporti con il mondo greco, avvertibili negli esiti iconografici e stilistici della decorazione, vengono chiariti dalla varietà e dalla grande quantità di prodotti d'importazione greca offerti come dono votivo nel santuario, in particolare coppe di produzione attica-laconica-ionica (nn. C 6-C 19).

La distruzione di questo edificio è fissata con certezza alla fine del VI secolo dalla più tarda ceramica di importazione, (coppe attiche del tipo detto «ad occhioni) rinvenuta, insieme a numeroso altro materiale ceramico e ai frammenti della decorazione architettonica, nello strato che ricopriva in parte lo stesso podio del tempio, dimostrando quindi di essere successivo alla distruzione dell'edificio e al livellamento dell'area.

Lavori di spianamento dovettero infatti precedere la ristrutturazione dell'Area Sacra che, all'inizio della repubblica, fu ricostruita ad un livello più alto mediante un notevole rinterro ottenuto con circa trentamila m3 di terra.

Frammista alla terra utilizzata per l'innalzamento dell'Area Sacra fu rinvenuta una grande quantità di frammenti di vasi dell'età del bronzo e del ferro (XIV-X sec. a.C.).

Si deve supporre per questo materiale e per la terra che lo conteneva una provenienza dalle immediate vicinanze, probabilmente dalle prossime pendici del Campidoglio.

Un podio quadrato di m. 47,50 di lato sopraelevò l'area di circa quattro metri sul livello del Foro Boario, soggetto alle frequenti inondazioni del vicino fiume. Su questo podio che detta all'area un orientamento leggermente diverso rispetto a quello del tempio più antico sono i resti dei due templi repubblicani di Fortuna e di Mater Matuta.

La ristrutturazione degli inizi del V secolo a.C. dovette interessare non la limitata area templare ma tutta l'area del Foro Boario col vicino porto fluviale, in relazione alla viabilità e all'avvenuto incanalamento delle acque.

Questo dato è di grande importanza in quanto permette di rilevare come il passaggio dalla monarchia alla repubblica, che indubbiamente deve aver costituito un fatto traumatico dal punto di vista politico, non abbia anche segnato un momento di crisi dal punto di vista edilizio.

Il grande interesse suscitato dalle scoperte dell'Area Sacra trova la sua giustificazione nei fondamentali contributi da essa forniti alla conoscenza della topografia del Foro Boario, del suo significato economico e culturale e del carattere dei culti in esso attestati. La presenza nella zona circostante di genti di cultura appenninica a partire dalla media età del bronzo (XVI sec. a.C.) ed una continuità di insediamento per l'età del ferro (X-VII secolo a.C.) costituiscono certamente uno dei dati più rilevanti. La frequentazione dell'approdo esistente sulla riva sinistra del Tevere, presso l'isola tiberina, da parte di commercianti greci, a partire dai primi decenni dell'VIII secolo a.C., completa il quadro economico-culturale per l'età più antica. Ceramica di produzione corinzia, euboica e pitecusana, frutto del commercio euboico, che in coincidenza col sorgere delle prime colonie greche d'Occidente (fondazione di Pitecusa nell'isola d'Ischia intorno al 775 a.C. da parte di coloni dell'Eubea) interessa le coste tirreniche e in particolare modo Roma e Vulci, è stata rinvenuta in gran numero a S. Omobono (E. La Rocca, Par Pass XXXII, 1977, pp. 374-397). La funzione di importante scalo commerciale di quello che diventerà in età storica il Portus Tiberinus (A. M. Colini, MAAR XXXVI, 1980, p. 43 ss.) non sembra subire flessioni almeno per tutto il VI secolo.

L'importanza del mercato romano, frequentato probabilmente da mercanti e artigiani greci, è chiarita dalla posizione topografica del Foro Boario, punto di incontro delle vie di comunicazione tra la Campania e l'Etruria e, attraverso la valle tiberina, tra il Tirreno e la zona interna falisco-sabina.

Importazioni di lusso, appositamente create per i floridi mercati d'occidente, vengono trasportate dalle marinerie greco-orientali nell'ambito del VI secolo nei mercati delle ricche città etrusche e nei centri del Lazio. Le coppe attiche, rinvenute in numero considerevole accanto a quelle ioniche ed a qualche prodotto laconico nell'Area Sacra, documentano l'importanza del mercato romano in rapporto alla floridezza e alla ricchezza culturale della città in questo periodo. Il significativo contributo della cultura artistica, ideologica e religiosa del mondo greco deve essere messa in rapporto con questi traffici. La componente greca sembra infatti giocare un ruolo determinante nella crescita culturale della città proprio nel momento in cui una classe dominante etrusca è detentrice del potere. La presenza etrusca in Roma nell'ambito del VI secolo è testimoniata nel santuario da un prevalere, tra le offerte votive, di oggetti di provenienza e di fabbricazione etrusca accanto alla ceramica di importazione greca e alla produzione locale. Particolare significato riveste una placchetta in avorio a forma di felino accosciato che presenta sul retro una iscrizione etrusca com­prendente il nome di un personaggio, probabilmente tarquiniese, della gens Spuriana (n. C 24).

La dedica alla Fortuna e alla Mater Matuta dei templi del Foro Boario ha trovato interpretazioni diverse per quanto attiene al significato cultuale delle due divinità e alle connessioni istituibili con i dati della tradizione.

Particolarmente suggestiva sembrava essere l'interpretazione di Mater Matuta, assimilata alla dea marina Leucotea, come dea del mare e della navigazione, e quindi la giustificazione del suo tempio e di quello del figlio Portumno nel Foro Boario, nelle immediate vicinanze della zona portuale. Recentemente il Castagnoli (StRom XXVII, 2, 1979, p. 145 ss.) riconoscendo come «speculazione tarda» l'accostamento Mater Matuta-Leucotea (così Ovidio, Fasti VI, 545) ha ricordato quello che è il genuino significato di Matuta, dea protettrice delle nascite.

Anche per Fortuna, che solo in un secondo momento assume il significato di arbitra del caso, viene ritenuta valida la interpretazione legata alla protezione delle nascite, in considerazione anche del fatto che la dedica del santuario è posta dai Calendari nello stesso giorno dei Matralia, la festa in onore di Mater Matuta.

Gli stretti legami esistenti nella letteratura antica tra Servio Tullio e la Fortuna, sua divinità protettrice, perderebbero secondo questa interpretazione il significato che, sulla scorta delle fonti, gli studiosi moderni hanno voluto vedervi (cfr. M. Pallottino, CRAI, 1977, pp. 216-235; C. Ampolo, ParPass XXXVI, 1981, in corso di stampa).

La presenza dei templi di Mater Matuta e Fortuna nel Foro Boario avrebbe lo stesso significato religioso dei culti di Mater Matuta a Satricum e della Fortuna a Preneste e la loro localizzazione sarebbe dovuta (secondo il Castagnoli) alla celebrità e alla enorme importanza del Foro Boario paragonabile solo a quella del Foro Romano (Anna Sommella Mura).

Bibl.: A. M. Colini, BC LXVI, 1938, p. 279 ss.; ID., Atti V Congr. Studi Rom II, Roma 1940; ID., BC LXXVII, 1959-60, pp. 3-6; R. Peroni, ibid., pp. 7-32; E. Gjerstad, ibid., pp. 32-108; R. Pari-beni, ibid., pp. 109-124; G. Colonna, ibid., pp. 125-143; G. Colonna, BC LXXIX, 1963-64; E. Paribeni, BC LXXXI, 1968-69, pp. 7-15; Gjerstad III, pp. 368-463; Gjerstad IV, p. 399 ss.; G. Ioppolo, RendPoniAcc XLIV, 1971-72, pp. 3-19; A. M. Colini, ParPass XXXII, 1977, pp. 9-19; G. Sartorio e altri, ibid., pp. 21-61; A. Sommella Mura, ibid., pp. 62-128; Von Sidow, AA, 1973, p. 581; A. Sommella Mura, Boll Musei Com Roma XXIII, 1977, 1-4, p. 11 ss.; G. Pisani Sartorio-P. Virgili, Archeologia Laziale, II, 1979, pp. 41-47; J. Poucet, AntClass XLIX, 1980, p. 286 ss.

LA DECORAZIONE ARCHITETTONICA

Secondo quanto attestato dalle fonti antiche (Plinio, Nat. Hist. XXXV, 151 ss.) e confermato dalla documentazione archeologica e dai modellini votivi (R. A. Staccioli, Modelli di edifici etrusco-italici, Firenze 1968), una decorazione in terracotta dipinta rivestiva interamente le strutture lignee dei templi arcaici, in ambiente italico e greco-orientale, a partire almeno dalla metà del VII secolo a.C.

Questa tecnica, introdotta in Italia, secondo la tradizione, da artisti corinzi giunti in Etruria al seguito di Damarato, padre di Tarquinio Prisco (Plinio, Nat. Hist. XXXV, 157) ebbe grande fortuna sopratutto in Etruria, nel Lazio e in Campania, e fu sostituita dalla scultura in pietra solo in età tardo repubblicana.

Le esplorazioni dell'Area Sacra di S. Omobono hanno portato un fondamentale contributo alla conoscenza della ceroplastica arcaica, non solo per Roma, in cui il materiale architettonico rinvenuto rappresenta il complesso più ampio e significativo, ma anche per l'Italia centrale. Esso si inserisce infatti nella sequenza formata dai complessi di Murlo (cfr. M. Cristofani, Prospettiva I, 1975, pp. 9-17, con bibl. precedente) e di Veio (Pallottino, 1945; id., ArchCl II, 1950, p. 122 ss.) con una produzione che copre tutto l'arco del VI secolo).

Infatti gli scavi hanno restituito, insieme a una grande quantità di tegole di vario tipo riferibili all'intero arco di vita del santuario, anche numerosi elementi della decorazione plastica messi in opera sugli architravi, sul timpano e sul tetto stesso dell'edificio.

La parziale esplorazione dell'Area, la mancanza di precisi dati stratigrafici per gran parte del materiale, rende difficile una distinzione tra elementi decorativi dell'edificio di prima e quello di seconda fase. Tuttavia appare abbastanza convincente l'attribuzione al tempio più antico di alcune lastre di rivestimento dei rampanti del frontone con figure di felini gradienti delle placche con silhouette a forma di felino (n. C 1) da collocarsi nello spazio frontonale. Nonostante l'estrema limitatezza della documentazione, si può rilevare, in questo edificio di prima fase, una chiara presenza di motivi decorativi corinzi, generalmente caratterizzanti la produzione ceroplastica italica della prima metà del VI secolo, ma particolarmente accentuati in questo ipotizzabile frontone chiuso con felini in posizione araldica ai lati probabilmente di una figura di Gorgone.

La presenza di un frontone chiuso, come suggerito dalla messa in opera di queste lastre, è un fatto isolato in ambiente etrusco-laziale per l'età arcaica, e costituisce quindi una documentazione eccezionale che attesta la precoce penetrazione di modelli greci in Roma nel periodo storico in cui si colloca, secondo la tradizione, la figura di Servio Tullio. Le analogie iconografiche sono infatti da ricercarsi nel frontone in poros del tempio di Artemide a Corfù; questo, pur nella diversità delle soluzioni tecniche determinate dall'utilizzazione di materiali diversi, la pietra nel santuario greco, la terracotta in quello romano, costituisce infatti il confronto più pertinente.

La documentazione architettonica dell'edifìcio ricostruito nella seconda metà del VI secolo è fortunatamente molto più abbondante.

Lastre con processione di carri (n. C 2), frammenti di antefisse a testa di menade, di un tipo documentato a Velletri (Cristofani, 1978, p. 96, fig. 60), statue acroteriali a tutto tondo (n. C 3) permettono una ricostruzione abbastanza attendibile dell'edificio di seconda fase. Questa decorazione, confrontabile con una produzione analoga rinvenuta nei santuari di Veio e Velletri, offre lo spunto per alcune considerazioni sulla tecnica di esecuzione e sull'area di diffusione dei modelli. L'attenzione è stata rivolta in modo particolare alle lastre di rivestimento presenti a S. Omobono in un unico tipo raffigurante una processione di carri (n. C 2); appartengono ad una pro­duzione in serie, ricavata da matrici entro le quali veniva pressato uno strato di argilla depurata amalgamata con materiale sabbioso che ne accrescesse la compattezza. Un ritocco a stecca e i necessari tagli precedevano l'essiccazione; successivamente le lastre venivano dipinte con colori molto vivaci e messe in forno per la cottura. A officine veienti è stata attribuita la creazione dei modelli-prototipi di queste lastre di cui è stata anche messa in rilievo la contemporanea diffusione in area romana e laziale (cfr. Cristofani, 1978, p. 95 ss., ivi bibl. Precedente).

Un procedimento analogo doveva essere anche per la produzione delle antefisse e della maggior parte della restante decorazione. Per lastre di maggiori dimensioni era anche possibile l'uso di stampi, appositamente predisposti che permettevano la realizzazione di parti separate da accostare successivamente (n. C 1).

Per la plastica a tutto tondo si faceva invece ricorso ad un'armatura interno di legno (Plinio, Nat. Hist. XXXIV, p. 45 s.) che serviva per sostenere l'argilla molle durante la modulazione che il plasticatore faceva in genere completamente a mano; questo sostegno ligneo, detto dagli autori greci kanabos veniva eliminato durante la cottura.

Da una serie di osservazioni relative al materiale e alla tecnica di esecuzione sembra doversi concludere che la decorazione fittile del tempio arcaico di S. Omobono è stata prodotta a Roma da una officina in cui lavoravano maestranze di grande perizia tecnica che possono aver utilizzato, per la produzione di serie, modelli largamente diffusi a Roma stessa e in ambito etrusco e laziale (Veio-Velletri).

Nella plastica a tutto tondo si evidenziano elementi stilistici di derivazione greco-orientale che li hanno fatti accostare ad un gruppo di sculture considerate samie, provenienti dall'Heraion di Samo o dal Didymaion di Mileto (Cristofani, 1978, p. 96).

Bibl.: Andrén, 1939-40; EAA, s. v. terracotta, VII, 1966, p. 732 ss.; A. Sommella Mura, ParPass XXXII, 1977, p. 63 ss.; Cristofani, 1978, p. 92 ss.

C 1. Lastre frontonali in terracotta urn:collectio:0001:antcom:16116 .

Una figura di felino mancante della testa e di parte del corpo, un frammento di una lastra analoga e speculare, resti di una probabile figura alata, hanno permesso l'ipotetica ricomposizione della decorazione frontonale riferibile alla fase più antica del tempio del Foro Boario. Questo presenta quindi l'unico esempio finora attestato in ambiente etrusco-laziale, di edificio con frontone chiuso. I modellini fittili e la documentazione esistente ci offrono infatti costantemente esempi di edifici con frontone aperto nei quali le lastre di rivestimento coprono unicamente le testate del columen e dei mutuli (Staccioli, 1968).

Lo spazio frontonale è qui invece occupato interamente da due felini accosciati e contrapposti in posizione araldica ai lati di una figura centrale, raffigurante probabilmente una gorgone.

La tecnica di lavorazione usata per modellare queste lastre è del tutto particolare; osservando la placca meglio conservata si rileva infatti che essa è formata da parti distinte che presentano margini vivi, determinati dal taglio della lastra.

Le singole parti erano ottenute stendendo una lastra di argilla sul fondo sagomato dello stampo e aggiungendo via via strati di argilla fino a modellazione avvenuta. Dopo l'essicazione i singoli pezzi venivano uniti mediante argilla diluita e ricoperti da una vivace policromia. Una fitta serie di fori passanti fu praticata sulle lastre prima della cottura per permetterne il fissaggio con chiodi su una parete, probabilmente lignea. L'estrema lacunosità del materiale conservato non permette di sciogliere, per ora, i numerosi quesiti relativi ai problemi tecnici che rendono complesso l'inserimento di queste lastre nel triangolo frontonale. Né possono esserci d'aiuto in questo senso i numerosi confronti iconografici istituibili con i frontoncini dipinti delle tombe Tarquiniesi, nei quali spesso ritorna lo schema araldico dei felini affrontati ai lati di un pilastrino; (M. Moretti, Nuovi monumenti della pittura Etrusca, Milano 1966; Id., Pittura Etrusca in Tarquinia, Milano 1974). Di grande interesse, per comprendere i rapporti tra Roma e il mondo greco, è invece la documentazione offerta dai più antichi frontoni testimoniata in Grecia, a Corfù e ad Atene.

In particolare la stretta dipendenza dello schema iconografico del frontone dell'edificio del Foro Boario da quello del tempio di Artemide a Corfù (G. Rodenwaldt, Die Bildwerke des Artemistempels von Korkyra, Berlin 1939, figg. 47-48, tav. 2; id. Korkyra Archaische Bauten und Bildwerke. Der Artemistempel, I, Berlin 1940, tav. 26; F. Charbonneaux-R. Martin-F. Villard, La Grecia arcaica, Milano 1969, p. 16 s., figg. 16-17) sottolinea il precoce accoglimento in ambito romano di modelli architettonici greci (Anna Sommella Mura).

Antiquarium Comunale, inv. 16116;

h. max. cm. 120 circa; largh. cm. 140.

Bibl.: A. Sommella Mura. ParPass XXXII, 1977, p. 83 ss., figg. 12-13; G. Colonna, ParPass XXXVI. 1981 (in corso di stampa).

C 2. Lastre di rivestimento in terracotta urn:collectio:0001:antcom:15883 .

Queste lastre ed altre con decorazione analoga, documentate dall'esistenzadi numerosi frammenti, formavano il rivestimento del timpano nel tempio arcaico di seconda fase.

L'esatta collocazione della lastra più integra (A) è stata individuata grazie al taglio obliquo di uno dei suoi lati brevi che ne determina la sistemazione al vertice del rampante di destra.

Uno stesso schema decorativo usato in due varianti speculari per permettere una rappresentazione convergente verso la sommità del timpano caratterizza queste lastre, ottenute mediante una matrice a leggero incavo e raffiguranti una processione di carri.

La ripetitività del motivo utilizzato, formato da due bighe trainate rispettivamente da tre cavalli e da due cavalli alati, montate dall'auriga e da un personaggio femminile con caratteristico copricapo a cono, nonostante la presenza di un Hermes che apre la processione (lastra B), induce a ritenere lo schema puramente decorativo, svuotato comunque di ogni originario contenuto mitico (così A. Akerstrom, ORom I, 1954, pp. 191-231).

Questo tipo di lastre si ritrova sia in altri edifici romani (Palatino-Esquilino-Foro Romano) sia nei santuari di Veio e Velletri insieme a lastre simili ma con motivo iconografico diverso (scene di banchetto, consesso di divinità ecc.) (cfr. A. Andrén, ORom VIII, 3, 1971, pp. 1-16).

Questi fregi di chiara ispirazione ionica, come è evidente dalle caratteristiche stilistiche e antiquarie, ma in cui sono presenti anche elementi di derivazione corinzia, possono datarsi in base a confronti istituibili con la ceramica greca nella 2a metà del VI secolo a.C. (540-30 circa). (Anna Sommella Mura)

Antiquarium Comunale, inv. 15.883;

lastra A lungh. mass. cm. 65; h. mass. cm. 27; 1 frammento lungh. cm. 17; h. mass. cm. 15.

Argilla sabbiata rossastra con inclusi di augite con ingubbiatura chiara, resti di policromia in nero e rosso.

Bibl.: A. Sommella Mura. ParPasx XXXII, 1977. p. 71 ss. con bibl. precedente; A. C. Brown. Arch Rep, 1973-74, 1975, p. 60 ss.; M. Cristofani. Prospettiva IX, 1977, p. 2 ss.; Cristofani, 1978, p. 95.

C 3. Gruppo acroteriale in terracotta urn:collectio:0001:antcom:14914 .

Ricomposto in seguito ad un accurato restauro, basato sui risultati di un precedente studio, questo gruppo in terracotta composto da due figure a tre quarti dal vero identificabili con Eracle e Atena è il più antico finora noto in ambiente italico.

Della dea che è raffigurata stante col piede destro avanzato e col corpo leggermente ruotato verso destra, si conserva la bella testa calzante l'elmo di tipo calcidese con alto lophos, la parte superiore del busto con la spalla ed il braccio destro proteso ad impugnare l'asta, parte dello scudo circolare, ed infine la parte inferiore del corpo, avvolto nel lungo chitone che ricade in ampie pieghe lasciando scoperti i piedi nei caratteristici calzari ionici.

Della statua di Eracle purtroppo acefala è stato ricomposto da numerosi frammenti il torso, mentre mancano completamente il braccio e la gamba destra, parte del braccio e della gamba sinistra.

L'iconografia di questa statua caratterizzata dalla pelle di leone annodata sul petto, indossata su una corta tunica e trattenuta in vita da un aderente corpetto allacciata da una fìbbia quadrangolare, è quella dell'Eracle di tipo cipriota, noto in ambiente italico da una serie di bronzetti etruschi tardoarcaici (M. Cristofani. Prospettiva IX, 1977, p. 2 ss.).

Le due statue poggiavano su una stessa lastrina, incassata probabilmente su una base semicircolare che doveva costituire l'elemento di raccordo con il tetto del tempio; su questo infatti, con ogni verosimiglianza, trovano sistemazione in funzione acroteriale questo gruppo ed altri di cui restano solo pochi frammenti.

La chiave per interpretare il significato di questo singolare gruppo, in cui si è voluto riconoscere l'episodio del mito di Eracle relativo all'ultimo atto della sua epopea, e cioè il momento della presentazione dell'eroe all'Olimpo per la sua divinizzazione, può essere ricavata dall'attento esame della composizione. Si rileva infatti che l'artista ha voluto mettere in evidenza lo stretto legame che unisce le due figure raccordandole non solo materialmente ma anche idealmente con un sottile gioco di convergenze avvertibile nella leggera torsione verso sinistra della statua di Atena, in cui persino la posizione dell'elmo, che lascia maggiormente scoperto il lato destro del volto, ne sottolinea il movimento verso Eracle.

All'eroe viene riservato nella composizione un ruolo preminente: le dimensioni proporzionalmente maggiori e la posizione avanzata ne sottolineano infatti il ruolo di protagonista.

La maestà divina è indubbiamente conferita alla dea dal fatto che essa è completamente armata, ma la sua posizione arretrata e le dimensioni minori rispetto ad Eracle sembrano volerne sottolineare il ruolo secondario di semplice presentatrice dell'eroe al consesso degli dei.

Il tema dell'introduzione di Eracle all'Olimpo, sebbene più raro nel repertorio iconografico greco rispetto ai temi prediletti delle fatiche di Eracle, appare tuttavia documentato nella produzione ceramica databile alla seconda metà del VI secolo (elenco in F. Brommer, Vasenlisten zur Griechischen Heldensagen, 1973. p. 174) e si ritrova persino nella decorazione a rilievo del frontone di un tempio in poros dell'acropoli di Atene datato intorno al 570 a.C. (F. Charbonneaux, R. Martin, F. Villard, La Grecia Arcaica, Milano 1979, figg. 16-17).

La trattazione di questo particolare mito nella decorazione plastica del tempio arcaico di 2a fase databile nella seconda metà del VI secolo, non ha ancora trovato una chiara motivazione.

La presenza in un santuario a Roma di un'opera di buon livello artistico che documenta l'interpretazione, in chiave locale, di un particolare tema del mito greco e l'acquisizione di elementi stilistici tipicamente greci, riveste un eccezionale significato per comprendere il livello culturale e artistico di Roma nell'ultimo periodo dell'età regia (Anna Sommella Mura).

Antiquarium Comunale, inv. 14.914;

alt. cm. 140; largh. mass. cm. 68. Argilla sabbiata con inclusi di augite.

Bibl.: A. Sommella Mura, ParPass XXXII, 1977, p. 99 ss.; ID., Boll. MuseiComRoma XXIII, 1977, 1-4, p. 3 ss.; ID., ParPass XXXVI, 1981 (in corso di stampa); Cristofani, 1978, p. 95 ss.

C 4. Volute acroteriali urn:collectio:0001:antcom:16155 .

Quattro grandi elementi a voluta sono stati ricostruiti da numerosi frammenti; si presentano gli esemplari più integri.

Le loro dimensioni sembrano variare, anche se non è possibile una valutazione esatta a causa della loro lacunosità. Le volute sono eseguite probabilmente entro stampi bivalvi e successivamente saldate all'interno, dove sono evidenti i segni della lavorazione; hanno base ovale con angoli smussati, sono fortemente rastremate verso l'alto e terminano con un motivo a ricciolo. La superficie esterna presenta tracce di decorazione a grandi squame policrome eseguite su una base incisa a compasso e sulla costolatura a fasce bicolori orizzontali; fasce verticali accompagnano il movimento a ricciolo.

Queste volute erano probabilmente collocate contrapposte sulla sommità del timpano, ai lati dell'acroterio centrale come suggerito dal confronto con alcune urnette ceretane e da stele etrusche (R. A. Staccioli, Mél LXXXIII, 1971, 1, p. 29, figg. 2-3) (Anna Sommella Mura).

Antiquarium Comunale, inv. 16155-16156 urn:collectio:0001:antcom:16156 ;

h. cm. 124; Argilla sabbiata con inclusi di augite, tracce di pittura in bianco, rosso, paonazzo.

Bibl: Gjerstad III, p. 448; A. Sommella Mura, ParPass XXXII, 1977, p. 94 ss., figg. 21-23.

IL DEPOSITO VOTIVO

II deposito situato presso il lato posteriore del tempio è stato sinora solo parzialmente esplorato. A differenza di altri depositi votivi spesso deposti entro fosse esso sembra fosse protetto solo dalla parete rocciosa del Colle Capitolino che in età antica cominciava ad innalzarsi a breve distanza dal tempio (Gjerstad IV, 2, p. 399 ss.; A. M. Colini, ParPass XXXII, 1977, p. 9 ss.).

Alcuni doni votivi risultavano, al momento del ritrovamento, ordinatamente disposti, come i kyatoi miniaturistici impilati uno sull'altro. I limiti cronologici del deposito si pongono in un arco di tempo singolarmente coincidente con gli anni di regno di Servio Tullio. Significativa è la preponderanza di oggetti votivi di produzione etrusca, in una alternanza di influenza corinzie, ioniche e microasiatiche. Ma se il repertorio figurativo delle ceramiche d'offerta di tradizione corinzia costituisce una evidente testimonianza delle trasformazioni e sclerotizzazioni che nella produzione artigiana locale subiscono le decorazioni vegetali e zoomorfe prive di spunti innovatori, diversa appare la ricezione delle influenze ioniche e microasiatiche soprattutto per la presenza di artigiani provenienti dalla Ionia Asiatica, sconvolta dalla invasione persiana, e attestatisi nei centri etruschi soprattutto costieri.

Le migliori realizzazioni artigianali non sono da ricercare tanto nelle decorazioni sulle ceramiche d'imitazione quanto nel cesello dei metalli, nella lavorazione delle pietre dure, nell'intaglio degli avori; e la favissa di S. Omobono, sia pur scavata in minima parte, ha già cominciato a restituire prodotti di raffinata esecuzione.

Oltre alle caratteristiche e consuete figurine ritagliate in lamina bronzea tipiche dei santuari arcaici delle aree laziali, il resto del materiale recuperato consiste in ceramiche di impasto tornito, in prevalenza olle, ed in forme miniaturistiche realizzate senza tornio, modellando con la pressione delle dita un grumo di argilla. II significato votivo o rituale di questi piccoli vasi come per i kyatoi e per le focaccette è evidenziato dalla loro presenza ed abbondanza nella totalità dei depositi votivi arcaici di Roma (Gjerstad III, p. 190 ss., 223 ss., 145 ss.), quali la stipe del Campidoglio, del Comizio, di S. M. della Vittoria ed in genere nelle stipi dei santuari laziali quali la Mater Matuta di Satrico, (Civiltà del Lazio Primitivo, p. 328 ss.), le stipi di Sermoneta, Montecassino e Tivoli con le quali i materiali del deposito votivo del Tempio arcaico di S. Omobono trovano puntuali confronti (Paola Virgili).

CERAMICA DI IMPORTAZIONE GRECA

II quadro offerto dalla ceramica di importazione a S. Omobono rientra nel più vasto problema relativo all'inserimento della Roma del VI secolo a.C. nell'ambito dei traffici commerciali provenienti dalla Grecia che interessano tutta l'area tirrenica in questo periodo. In base ad accurate statistiche si è potuto stabilire (Gjerstad IV, 2, p. 514 ss.) che la presenza di ceramica greca a Roma corrisponde a quella dei maggiori centri etruschi contemporanei (cfr. anche M. Martelli, StEtr XLVII, 1979, pp. 37-52). Sebbene non sia questa la sede per approfondire il complesso e dibattuto problema riguardo agli scambi ed alle rotte commerciali che hanno interessato tutta l'area tirrenica nel periodo preso in esame, giova però porre l'attenzione sul ruolo determinante delle marinerie greco orientali nella distribuzione dei beni di lusso nell'area tirrenica. Tali infatti sono da considerare i materiali esaminati, prodotti che un altissimo artigianato creava appositamente per l'esportazione e che quindi venivano utilizzati come vere e proprie merci di scambio.

A tale proposito Focea e Samo in Asia Minore, sono i centri ai quali si può ascrivere una parte rilevante nella conduzione dei rapporti commerciali con l'area occidentale del Mediterraneo ed in particolare con la fascia tirrenica.

La prima, che gode in occidente della importante testa di ponte di Marsiglia, vede diminuire, intorno alla metà del IV secolo a.C., la sua potenza commerciale in seguito a contrasti con Etruschi e Cartaginesi per il predominio delle rotte tirreniche, culminati nella battaglia di Alalia (540 a.C.). (Da ultimo su Focea: J. P. Morel, BCH XCIX, 1975, pp. 853-896, con bibliografia precedente).

D'altra parte i recenti scavi nel porto tarquiniese di Gravisca, ove è stato rinvenuto un santuario dedicato ad Hera, hanno testimoniato l'assidua frequentazione delle coste etrusche da parte di mercanti ionici, in particolare samii (M. Torelli, ParPass XXVI, 1971, pp. 44-67).

Così, la ceramica greca di S. Omobono contribuisce all'inquadramento della posizione di Roma nel VI secolo a.C. la quale, se da una parte partecipa profondamente della cultura etrusca, dall'altra mostra stretti e vivaci contatti con l'area economica e culturale greca (Maddalena Cima-Piera Righetti).

C 5. Aryballos globulare.

Il vasetto, destinato a contenere olii profumati, ha forma globulare lievemente irregolare ed è sormontato da un largo bocchello unito al vaso da un'ampia ansa piatta che sembra formare quasi un piano d'appoggio per il vaso stesso. La decorazione è dipinta con vernice nera e rossa in gran parte caduta ma ne è rimasta traccia sull'argilla ed è stato possibile ricostruire il disegno rappresentato. Il motivo principale, costituito da quattro fiori di loto a petali lanceolati e baccelli interni arrotondati, disposti in croce e alternati ad altrettante foglie, avvolge il piccolo vaso lasciandone fuori solo la parte posteriore sotto l'ansa. I fiori e le foglie sono campiti da un fine motivo a reticolato obliquo arricchito da fasce con motivo a treccia, mentre alcune zone, il bulbo, i petali, i baccelli, hanno un nucleo rosso a vernice piena.

I vari elementi del disegno sono collegati tra loro da linee e da una fascia con motivo a treccia. Sull'ampia superficie del bocchello sono rappresentati petali "a risparmio" (in negativo), mentre sugli orli dell'ansa e del bocchello ritorna il motivo a reticolato obliquo. Nella parte posteriore del vaso cinque ruote a sei raggi, quattro piccole e una grande, al centro.

Sia per la forma sia per il motivo decorativo, il vaso si pone accanto ad alcuni esemplari corinzi ben noti e già riuniti insieme dal Payne (Payne, 1931, pp. 146-7, nn. 480-485: periodo del corinzio arcaico). In particolare il motivo decorativo è molto simile a quello dell'aryballos del Vaticano (Payne, 1931, n. 484; C. Albizzati, Vasi antichi dipinti del Vaticano, Roma 1925, p. 43, n. 5, tav. 9, di provenienza sconosciuta) rispetto al quale però il nostro dimostra un'esecuzione più accurata e raffinata. Al gruppo individuato dal Payne appartengono pochi pezzi di notevolissima qualità (cfr. anche P. Amandry, BCH XCVII, 1973, p. 189 ss.). Quattro di essi alla decorazione figurata aggiungono il pregio di un'iscrizione dipinta. Sono stati a ragione considerati dallo studioso «show-pieces» oggetti cioè che, per la loro eccezionalità, dovevano contribuire a rafforzare il prestigio della città o della stessa officina che li produceva. Allo stesso gruppo appartengono tre vasetti sui quali il motivo dei quattro fiori di loto incrociati, peraltro di provenienza orientale come sembra attestare la decorazione di una soglia del palazzo di Assurbanipal a Niniveh (Soprintendenza Archeologica di Roma, Gli Assiri, Roma 1980, p. 137), viene rappresentato già modificato secondo una direttrice di evoluzione che durerà per tutto il VI secolo (P. N. Ure, Aryballoi and Figurines from Rhitsona in Beotia, Cambridge 1934, p. 43 ss.): l'aryballos di S. Omobono quindi sembra essere tra i più antichi del gruppo, probabilmente eseguito ancora negli ultimi anni del VII secolo (Margherita Albertoni.).

Antiquarium Comunale; inv. scavo VII 5 3858: scavi Colini 1977-80; h. cm. 7; diam. bocchello cm. 4,3. Argilla giallastra molto depurata, tornita.

CERAMICA ATTICA

La ceramica attica presente a S. Omobono è rappresentata, per esigenze legate al culto, unicamente da coppe, e si può perciò seguire l'evoluzione della forma per un arco di tempo che va dal secondo venticinquennio alla fine del VI secolo a.C., con un forte incremento nella seconda metà del secolo.

L'esemplare più antico è rappresentato da una coppa del tipo di Siana (nome della necropoli di Rodi dove è stato ritrovato un esemplare della classe), che si colloca nel secondo venticinquennio del VI secolo. Caratteristica è la vasca profonda, il labbro alto e distinto, il piede a tromba.

I motivi decorativi più diffusi sono fregi di cavalieri o scene di banchetto che possono limitarsi alla zona compresa fra le anse (double decker) oppure estendersi anche all'orlo ignorando la distinzione tettonica del vaso (over-lap). Il tondo interno presenta in genere figurazioni umane o animali, circondate di consueto da una fascia a linguette.

È stato rinvenuto anche un esemplare di coppa tipo Gordion (dal nome della città dell'Asia Minore dove fu rinvenuto il pezzo che da il nome alla classe) in cui si osserva, rispetto alla precedente, una leggera modificazione della forma e della decorazione che crea le premesse per la canonizzazione della diffusissima classe dei «piccoli maestri». Nelle coppe di Gordion il piede diventa più slanciato, il labbro è verniciato di nero e la decorazione esterna si limita ad un'iscrizione nella fascia risparmiata compresa fra le anse. Il tondo interno presenta gli stessi schemi decorativi delle coppe di Siana.

Un'altra classe ben rappresentata a S. Omobono è quella dei «piccoli maestri» (560-530) così denominata dallo stile miniaturistico della decorazione. Le coppe, a vasca poco profonda, su piede alto e slanciato, si dividono in due tipi principali: lip cups e band cups. Le prime portano, sul labbro distinto dal corpo attraverso una leggera risega e risparmiato sul fondo dell'argilla, una decorazione costituita da figure singole umane o animali, o da piccoli gruppi. Nella zona delle anse, anch'essa risparmiata, è tracciata un'iscrizione compresa fra palmette che rappresenta o la firma del ceramista oppure un'espressione augurale. Nelle band cups la forma è leggermente diversa, con il labbro verniciato di nero che si fonde senza interruzioni al corpo del vaso. La decorazione si limita alla fascia compresa fra le anse, con vivaci fregi di figurine umane o animali.

Anche la vasta classe delle coppe ad occhioni è presente con numerosi pezzi, tutti collocabili nell'ultimo trentennio del VI secolo a.C.

Tali coppe, che si differenziano nella forma dai precedenti tipi per la mancanza di distinzioni tettoniche fra corpo e labbro, sono contraddistinte dalla presenza di grandi occhi apotropaici dipinti sulla superficie esterna del vaso.

A volte gli occhi rappresentano l'unica decorazione, mentre spesso sono accompagnati da scene figurate (Maddalena Cima-Piera Righetti).

C 6. Coppa di Siana urn:collectio:0001:antcom:17412 .

La decorazione esterna, tipo overlap, consiste in una teoria di cavalieri imberbi, impugnanti la lancia e vestiti con un corto chitone rosso. La cavalcata si svolge al piccolo galoppo verso sinistra e mostra un ritmo più vivace sopratutto nelle figure dei cavalli rese con cura nelle incisioni delle criniere e dei particolari anatomici. Il tondo interno, decorato da un gallo, è privo dell'usuale cornice a linguette (cfr. anche la coppa G 9 di Lavinium II, pp. 374-376, fìg. 448). La coppa è attribuita al pittore C da Paribeni e da Beazley, sebbene essa sia da considerare fra le opere meno curate di questo ceramografo. Ca. 560 a.C. (Piera Righetti).

Antiquarium Comunale, inv. 17412;

scavi Colini 1938; h. cm. 14,8; diam. cm. 28,4. Di restauro parti del corpo e il piede.

Bibl.: E. Paribeni, BC LXXVII, 1959-60, pp. 115-116, n. 33, tav. VI;Gjerstad III, pp. 439-440, fig. 276, 1-3, 27-29; Gjerstad IV, 2, p. 526, fig. 164, 1, 3; J.D. beazley, Paralipomena, Oxford 1971, p. 24, n. 51 quater (dove erroneamente «Antiquarium Forense»); Gjerstad VI, p. 59, fig. 21, 1.

C 7. Coppa di Gordion urn:collectio:0001:antcom:s.n .

Presenta all'esterno sulla fascia risparmiata un'iscrizione compresa fra palmette: ]es epoiesen. All'interno il tondo centrale è delimitato da una fascia a linguette rosse e nere alternate, compresa fra altre due decorate con linee concentriche. Rimane solo un piccolo frammento con tracce della decorazione centrale con accanto la scritta: ]auro. L'integrazione proposta da Paribeni per l'iscrizione interna agl]auros porterebbe ad individuare quindi nei resti della decorazione parte della capigliatura di una figura femminile rappresentante una delle figlie di Cecrope. Per quanto riguarda invece l'iscrizione all'esterno della coppa i nomi proposti per integrare la terminazione ]es sono quelli dei ceramografi archikl]es (Paribeni) e sokl]es (Gjerstad).

Ca. 550 a.C. (Piera Righetti).

Antiquarium Comunale, s.n.;

scavi Colini 1938; frammento maggiore h. cm. 6,3; largh. cm. 8,5. Frammentaria.

Bibl: E. Paribeni, BC LXXVII, 1959-60, pp. 116-117, n. 34, tav. VII. 34; Gjerstad III, p. 440, fig. 276, 11-12, 25-26; Gjerstad IV, 2, fig. 166, 1-2.

C 8. Lip urn:collectio:0001:antcom:17419 cup urn:collectio:0001:antcom:17419 .

Il labbro, risparmiato sul fondo dell'argilla, come è consuetudine in questa classe, è privo di decorazione, mentre nella zona compresa fra le anse, inquadrata da palmette, si legge l'iscrizione: chaire kai piei eu (stai bene e bevi), caratteristica espressione augurale. L'interno è verniciato di nero tranne il tondo centrale che, inquadrato da una fascia a linguette rosse e nere alternate, mostra la raffigurazione di un uccello (aquila?) in volo, con notazioni a vernice rossa e nera e particolari a graffito.

Un esemplare simile, proveniente da Camiro, si conserva al British Museum (CVA III, p. 4, n. 6, tav. 1l) (Maddalena Cima).

Antiquarium comunale, inv. 17419;

scavi Colini 1938; h. cm. 9,8, diam. cm. 14,3. Ricomposta da diversi frammenti. Il piede è di restauro.

Bibl.: E. Paribeni, BC LXXVII, 1959-60, p. 117, n. 37, tav. VIII; Gjerstad III, p. 440, fig. 277, n. 1-2; Gjerstad IV, 2, p. 514 ss., fig. 167; Gjesrstad VI, p. 113, fig. 36, 1-2.

C 9. Lip cup urn:collectio:0001:antcom:s.n. .

I frammenti mostrano sul labbro parti di due figure di cervi pascenti con collo sovradipinto in rosso, che dovevano occupare il centro di ogni lato del vaso. Si conserva anche parte dell'iscrizione che decorava la zona compresa fra le anse: euka (Maddalena Cima).

Antiquarium comunale, s. n.;

scavi Colini 1938; framm. maggiore: h. cm. 5,4, largh. cm. 5,4. Si conservano quattro frammenti, tre dei quali attaccano.

Bibl.: E. Paribeni, BC LXXVII, 1959-60, p. 117, n. 38, tav. IX; Gjerstad III, p. 439, fig. 276, 6; Gjerstad IV, 2, p. 514 ss., fig. 168, 2.

C 10. Band cup urn:collectio:0001:antcom:s.n. .

Rimangono alcuni frammenti che conservano parte del fregio figurato che si svolgeva nella zona compresa fra le anse. Inquadrata da una palmetta, che doveva essere posta al lato dell'ansa, si svolge verso sinistra una teoria di figurine maschili, tracciate con rapidità e caratterizzate da pochi segni a graffito: un giovane nudo, un personaggio ammantato ed un altro giovane a cavallo. Un frammento isolato mostra la figura di un giovinetto a cavallo, anch'esso incedente verso sinistra.

Tutte le figure sono accompagnate da pseudo-iscrizioni, rappresentate da serie di puntini allineati. La coppa è stata attribuita alla cerchia del pittore del Louvre F 28 (Maddalena Cima).

Antiquarium comunale, s.n.;

scavi Colini 1938; frammento maggiore: h. cm. 2,9, largh. cm. 6,8. In cinque frammenti, tre dei quali ricomposti.

Bibl.: E. Paribeni, BC LXXVII, 1959-60, p. 119, n. 50, tav. X;Gjerstad 111, p. 440, nn. 15-17; Gjerstad IV, 2, p. 514 ss., fig. 169, 2.

C 11. Coppa tipo floreale urn:collectio:0001:antcom:17411 .

La coppa presenta nella fascia risparmiata fra le anse una decorazione formata da una serie di palmette collegate in basso ad una fila di cerchietti.

Incisioni affrettate all'interno delle palmette sottolineano i petali (cfr. anche per il tipo F. Boitani, NS XXV, 1, 1971, p. 249, nn. 1212, 106, fig. 64, nn. 3-4, con bibliografia). Ca. 530-520 a.C. (Piera Righetti).

Antiquarium Comunale, inv. 17411;

scavi Colini 1938; h. cm. 9,9; diam. cm. 13,6. Di restauro parti del corpo, una delle anse e il piede.

Bibl.: E. Paribeni, BC LXXVII, 1959-60, p. 123, n. 76, tav. XVII, 76; Gjerstad III, p. 441, fig. 277, n. 6; Gjerstad IV, 2, p. 545, fig. 187, 11.

C 12. Coppa ad occhioni urn:collectio:0001:antcom:s.n. .

È decorata esternamente da grandi occhi con la cornea risparmiata nel fondo dell'argilla. Le iridi sono rese a cerchi concentrici nero, bianco e rosso; la pupilla è nera. Al di sotto delle anse due tronchi da cui partono tralci di vite con foglie stilizzate rese a grossi punti. Fra gli occhi un Satiro danzante insieme ad una Menade la cui «silhouette» è indicata con vernice bianca. Della decorazione interna della coppa rimane solo la metà inferiore di un Gorgoneion con la lingua verni­ciata in rosso e i denti caratterizzati da pesanti tratti di vernice bianca. Ca. 520 a.C. (Piera Righetti).

Antiquarium Comunale, s.n.;

scavi Colini 1938; frammento maggiore: h. cm. 8,4; largh. cm. 12,8. Frammentaria.

Bibl.: E. Paribeni, BC LXXVII. 1959-60, pp. 119-120, n. 54, tavv. XI, XIII, 54; Gjerstad III, p. 441, fig. 278, 1-3; Gjerstad IV, 2, p. 534, fig- 172, 3.

C 13. Coppa ad occhioni urn:collectio:0001:antcom:17418 .

È del tipo C, poggia su un basso e largo piede. La decorazione esterna è formata su entrambi i lati da due grandi occhi con la cornea risparmiata e con le iridi formate da cerchi concentrici. Accanto alle anse tralci di vite con le foglie rese da grossi punti. Il tondo interno della coppa è decorato da un Gorgoneion con grandi occhi semilunati e naso triangolare. Sommarie e affrettate le incisioni delle pupille e dei riccioli sulla fronte.

Ca. 520-500 a.C. (Piera Righetti).

Antiquarium Comunale, inv. 17418;

scavi Colini 1938; h. cm. 6,3; diam. cm. 18,7. Di restauro parti del corpo e una delle anse.

Bibl.: E. Paribeni, BC LXXVII, 1959-60, p. 120, n. 56. tavv. XII-XIII, n. 56; Gjerstad III, p. 441, fig. 277, 8, 10; Gjerstad IV, 2, p. 536, fig. 174, 1 a-b; Gjerstad VI, p. 114, fig. 36, 8, 10.

C 14. Coppa ad occhioni urn:collectio:0001:antcom:17414 .

È del tipo C, su piccolo piede a disco, con decorazione esterna formata su entrambi i lati da due occhioni con cornea a vernice nera. L'iride è sottolineata da due cerchi concentrici incisi, con all'interno un circoletto irregolare a vernice rossa a sottolineare la pupilla. Fra gli occhi, su un lato, un personaggio seduto con l'asta; sull'altro un guerriero impugnante la lancia.

Ai lati delle anse palmette prive di incisioni. La decorazione interna è resa semplicemente da un cerchietto e un punto nero al centro di un tondo risparmiato. Ca. 520-500 a.C. (Piera Righetti).

Antiquarium Comunale, inv. 17414;

scavi Colini 1938; h. cm. 6; diam. cm. 16,9. Di restauro ambedue le anse e parti del corpo.

Bibl.: E. Paribeni, BC LXXVII, 1959-60, p. 122, n. 61, tav. XV, n. 61; Gjerstad III, p. 441, fig. 277, 9; GjErstad IV, 2, p. 538, fig. 176, 1-2; Gjerstad VI, p. 114, fig. 36, 9.

C 15. Coppa ad occhioni urn:collectio:0001:antcom:17417 .

È di tipo C e poggia su un largo piede a disco. La decorazione esterna è formata su ambedue i lati da un unico grande occhio con cornea risparmiata e iride sottolineata da cerchi concentrici dipinti in vernice rossa. Gli stessi occhi formano il corpo di due arieti, uno per lato, correnti verso sinistra. Sovradipinture in vernice bianca mettono in risalto le corna degli arieti (per il motivo dell'occhio inserito nel corpo di una figura cfr. J. Boardman, Athenian Black Figure Vases, London 1974, p. 55, fig. 82). Dalle anse si sviluppano tralci di edera, invadendo parte del corpo della coppa.

L'interno presenta un cerchietto e un punto nero al centro di un tondo risparmiato. Ca. 520-500 a.C. (Piera Righetti).

Antiquariurn Comunale, inv. 17417;

scavi Colini 1938; h. cm. 7; diam. cm. 17,2. Di restauro alcune parti del corpo, un'ansa e parte della seconda.

Bibl.: E. paribeni, BC LXXVII, 1959-60, pp. 120-121, n. 59, tav. XIV; GJERSTAD III, p. 441, fig. 277, 7; gjerstad IV, 2, p. 537, fig. 175, 1 a-b; gjErstad VI, p. 114, fig. 36, 7.

COPPE IONICHE

Notevole e significativa è la presenza a S. Omobono delle coppe ioniche, soprattutto del tipo che, per la vicinanza con i contemporanei esemplari attici, è detto «dei piccoli maestri» (E. Kunze, AM LIX, 1934, p. 81 ss.; F. Villard-G. Vallet, Mèl. LXVII, 1955. p. 7 ss.), il cui centro di produzione va probabilmente riconosciuto a Samos. La forma corrisponde quasi perfettamente a quella delle lip cups attiche (vedi sopra), mentre differenti sono i princìpi decorativi. Gli esemplari che mostrano una decorazione figurata sono poco numerosi (famosissima fra questi la coppa di Parigi con omino cacciatore), mentre più di frequente le coppe presentano la superficie decorata da linee concentriche ottenute a vernice diluita, che accentuano e sottolineano la forma del vaso. L'abbondante diffusione di tali coppe di altissima qualità, dimostra che esse dovettero rappresentare dal punto di vista commerciale una forte concorrenza per la contemporanea ceramica attica. Le coppe ioniche dei piccoli maestri possono essere collocate cronologicamente tra il 560 ed il 530 a.C.

C 16. Coppa urn:collectio:0001:antcom:17416 .

La forma e la decorazione esterna ricalcano quella di una lip cup attica, mentre all'interno il labbro è verniciato di nero e la vasca decorata a sottili linee concentriche a vernice diluita alternate a linee più spesse. Il centro è segnato da un tondo a vernice nera (Maddalena Cima).

Antiquarium Comunale, inv. 17416;

scavi Colini 1938; h. cm. 4,6, diam. cm. 13,4. Ricomposta da numerosi frammenti, con integrazioni. Manca il piede.

Bibl.: E. paribeni, BC LXXVII, 1959-60, p. 113, n. 14, tav. IV; gjerstad III, p. 441, fig. 277, 3-4; gjerstad IV, 2, p. 514 ss., fig. 160, 7; gjerstad VI, p. 113, fig. 114, 4.

C 17. Coppa urn:collectio:0001:antcom:s.n. .

La decorazione esterna corrisponde a quella della precedente, mentre all'interno il labbro è decorato da sottili linee parallele limitate in alto ed in basso da linee più spesse. La vasca è verniciata di nero, solo il tondo centrale è risparmiato sul fondo dell'argilla e decorato al centro da un circoletto con punto iscritto (Maddalena Cima).

Antiquarium Comunale, s.n.;

scavi Colini 1938; h. cm. 4,5; diam. cm. 12,4. Solo una parte della coppa è stalta ricostituita da numerosi frammenti. Un frammento, pertinente, non attacca con gli altri.

Bibl.: E. PARIBENI, BC LXXVII, 1959-60, p. 115, n. 27, tav. V; E. paribeni, BC XXXI, 1968-69, p 7, tav. II.

CERAMICA LACONICA

C 18. Coppa urn:collectio:0001:antcom:17410 .

La coppa, su piede a tromba, presenta una vasca piuttosto profonda con l'alto labbro distinto dal resto del vaso attraverso una leggera risega. Una spessa linea a vernice nera sottolinea l'orlo, mentre la zona del labbro e la fascia compresa fra le anse, inquadrata da due grandi palmette, sono risparmiate sul fondo dell'argilla.

La zona della vasca invece, isolata da serie di linee parallele a vernice nera e rossa, presenta sull'ingubbiatura color crema caratteristica della ceramica laconica, un fregio che mostra due coppie di galli (al centro di ogni faccia) e due di sfingi (sotto le anse) araldicamente affrontati, resi a vernice nera con incisioni interne. Le figure del fregio sono intervallate da macchie di vernice nera. L'attacco del piede è circondato da una fascia a melograni, dipinti direttamente sul fondo dell'argilla. L'interno del vaso è tutto verniciato di nero, tranne il tondo centrale circondato da cerchi concentrici, che contiene la rappresentazione di due cavallini alati in posa rampante, i corpi dei quali sono sovrapposti in un unico profilo, mentre le otto zampe indicano la duplicità della figura. Un cerchio con punto iscritto ed un fiore di loto riempiono gli spazi liberi.

L'attribuzione del vaso è piuttosto controversa: alcuni studiosi (E. Gjerstad, che riporta anche l'opinione di B. Shefton), lo assegnano al pittore di Naukratis, uno dei principali pittori laconici del VI secolo a. C.; E. Paribeni preferisce attribuirlo al pittore dei Pegasi, mentre C. M. Stibbe lo inserisce nella cerchia del pittore dei Cavalieri.

Tutti gli studiosi sono comunque concordi per una datazione intorno al 560 a. C. (Maddalena Cima).

Antiquarium Comunale, inv. 17410;

scavi Colini 1938; h. cm. 12, diam. cm. 18,1. Ricomposta da numerosi frammenti con larghe integrazioni. Manca un'ansa.

Bibl.: E. paribenI, BC LXXVII, 1959-60, p. 112, n. 5, tav. 2; E. paribeni, BC LXXXI, 1968-69, p. 7, tav. 1; gjerstad III, p. 439, fig. 275, 27; gjerstad IV, 2, p. 514 ss., fig. 163, 4-5; stibbe, 1972, p. 262, n. 322, tavv. 114-115, fig. 16.

C 19. Patera urn:collectio:0001:antcom:s.n. .

Il frammento deriva da una phiale mesomphalos, forma piuttosto rara nell'ambito della ceramica laconica di VI secolo a. C. (cfr. E. A. Lane, BSA XXXIV, 1933-34, p. 124, fig. 11 i). La decorazione interna ed esterna si articola in fasce con motivi geometrici e vegetali dipinti in rosso ed in nero sul fondo ingobbiato color crema.

L'orlo del vaso è sottolineato da una larga fascia a vernice nera. Tra i motivi decorativi che compaiono su questo vaso sono da notare la fascia a meandro con melograni contrapposti inseriti (che rappresenta un unicum nel repertorio laconico) e la fascia decorata con un ramo di mirto, che doveva circondare il tondo centrale, motivo caratteristico di questa classe ceramica. Controversa risulta la collocazione cronologica del pezzo, posto da Paribeni nel primo quarto del VI secolo e da Stibbe al 540-530 (Maddalena Cima).

Antiquarium Comunale, s.n.;

scavi Colini 1938; h. cm. 3,9, largh. cm. 8. Si conserva un solo frammento del vaso.

Bibl.: E. paribeni, BC LXXVII, 1959-60, p. 112, n. 4, tav. 2; gjerstad III, p. 439, fig. 275, 25; gjerstad IV, 2, p. 514 ss., fig. 163, 1; stibbe, 1972, p. 263, n. 330, fig. 117, 1-2.

ALABASTRA DI ALABASTRO

II termine greco alabastron si riferisce ad un particolare tipo di vaso per unguenti e profumi, di dimensioni ridotte, a forma cilindroide allungata con stretta imboccatura. Unguentari di questo tipo furono eseguiti in vetro e ceramica oltre che in alabastro, materiale noto nell'antichità per la sua proprietà di mantenere inalterati i profumi.

Resta aperta la questione se sia stata la pietra a dare il nome al vaso o viceversa (per l'uso dell'alabastro nell'antichità, v. R. Gnoli, Mormora romana, Roma 1971, pp. 184 ss.).

Gli alabastra di alabastro sono stati generalmente considerati di provenienza egiziana, con particolare riferimento a Naukratis (per l'antica tradizione egiziana della lavorazione dei vasi in pietra e per l'esistenza di numerose cave di questo materiale in Egitto) ma non è da escludere la possibilità di altri centri di fabbricazione, come è del resto stato ipotizzato per gli alabastra di alabastro configurati nella parte superiore a busto femminile, per i quali oltre all'Egitto si sono individuate fabbriche a Rodi e in Etruria. Alabastra di alabastro sono stati rinvenuti in tutto il bacino orientale del Mediterraneo e in Italia numerosi esemplari sono venuti alla luce in Etruria, nel Lazio e nelle colonie greche di Magna Grecia e Sicilia. Le forme presentano pochi cambiamenti dal VII secolo a. C. fino all'età ellenistica (v. M. Cristofani Martelli in CVA Gela II, 1973, tavv. 31-32). Gli esemplari qui esposti, dall'area sacra di S. Omobono, provengono dalla favissa adiacente al lato posteriore del tempio arcaico; un altro pezzo frammentario era stato rinvenuto presso l'angolo NO del tempio stesso (scavo 1938: Gjerstad III, p. 448, fig. 279: 11; G. Colonna, BC LXXVII, 1959-60 (1962), p. 143, fig. 12, p. 142).

La datazione al VI secolo a. C. di questi pezzi (necessariamente ampia per il carattere conservativo delle forme) è confermata dal confronto con esemplari analoghi (Laura Ferrea).

C 20a.

Corpo fusiforme molto allungato con fondo arrotondato, collo cilindrico distinto dal corpo; due piccole prese laterali nella parte superiore del corpo. Una simile forma allungata si ritrova a Rodi (necropoli di Kamiros: Clara Rhodos IV, fig. 346, p. 312; fig. 448, p. 391), in esemplari da Cortona (F. W. Von Bissing. StEfr XI, 1937, tav. LV, n. 30) e da Cerveteri (M. P. Rossignani in CVA Parma I, 1970, tav. 1, 2) (Laura Ferrea).

Antiquarium Comunale; inv. di scavo VII, 5, 3701; scavi Colini 1978-79; h. cm. 18,8; diam. max. cm. 2,8; alabastro a venature orizzontali con sfumature dal bianco sporco al miele. Frammentario, ricomposto da tre pezzi: restano quasi tutto il corpo e parte del collo; superficie corrosa in più punti. Nella parte centrale del corpo è rimasto incrostato un frammento di bronzo.

C 20b.

Corpo cilindroide più sfinato in alto con fondo arrotondato, collo cilindrico, distinto dal corpo, su cui si imposta un bocchello discoidale; due piccole prese laterali nella parte superiore del corpo. Confronti abbastanza precisi si possono istituire con esemplari da Rodi (necropoli di Jalisos: Clara Rhodos III, 1929, p. 74, fig. 65; p. 114, fig. 109; necropoli di Kamiros: Clara Rhodos VI-VII, 1932, p. 65, fig. 66), da Chiusi (F. W. von Bissing, StEtr XI, 1937, tav. LV, nn. 27-28) e da Poggio Civitate (K. M. Philips Jr. in Poggio Civitate, Catalogo della mostra, Firenze 1970, p. 76 s., tav. XLIV h) (Laura Ferrea).

Antiquarium Comunale; inv. di scavo VII, 5, 3702; scavi Colini 1978-79; h. cm. 9,2; diam. bocchello cm. 2,5. Alabastro a venature orizzontali con sfumature dal bianco sporco al miele. Quasi integro: manca un pezzo del bocchello.

OGGETTI IN OSSO E AVORIO

C 21. Pendaglio raffigurante una statuina femminile urn:collectio:0001:antcom:03640 .

La statuina, rigidamente impostata con i piedi uniti su una basetta, presenta lateralmente all'altezza delle orecchie un foro passante. È avvolta in un mantello a maniche corte che copre il capo, si apre sul petto a V lasciando in vista la tunica con scollo rotondo e scende fino ai piedi con i due lembi accostati. L'orlo del mantello è decorato da incisioni orizzontali inquadrate tra due linee parallele, mentre sulla fronte appare una frangia orizzontale di riccioli, che notevolmente stilizzati si confondono con la decorazione dell'orlo del mantello. Le braccia sono rigidamente accostate al corpo con mani dalle dita rozzamente delineate da tre incisioni verticali. La testa, più accurata nella resa rispetto al corpo, è caratterizzata da una compressione della calotta cranica; il viso presenta fronte bassa tagliata orizzontalmente dalla fila di riccioli, grandi occhi rigonfi ed allungati verso le tempie, zigomi sporgenti, setto nasale stretto che si allarga alle narici, bocca piccola dalle labbra rigonfie distinte da una linea orizzontale.

La parte posteriore è completamente piatta senza indicazioni anatomiche. La lavorazione è poco accurata secondo un linguaggio figurativo che focalizza l'attenzione sulla resa del volto mentre stilizza e semplifica gli altri particolari del corpo ridotto a forma cilindrica da cui fuoriescono le braccia larghe ed appiattite con mani rese quasi ad intaglio ligneo. Il mantello che copre il corpo si inquadra ancora in esperienze di ambiente tardo orientalizzante mentre i lineamenti del volto e la presenza della fila di riccioli stilizzati sulla fronte ci riconducono già al primo arcaismo.

Il tipo di mantello infatti trova confronto nella piccola plastica in bronzo ed in particolare in una serie di offerenti femminili dell'Etruria settentrionale datati nella seconda metà del VII-primo quarto del VI secolo a. C. (J. Ch. Balty, BuIlInstHistBelgeRome XXXIII, 1961, pp. 58-61). Particolarmente simile è inoltre un bronzetto di Leida (J. Ch. Balty, BullInstHistBelgeRome XXXVII. 1966, p. 9. n. 16, tav. II, 1-3) per il mantello con i due lembi accostati i cui orli sono decorati da incisioni: molto diffusa è peraltro la decorazione degli himatia e dei chitoni in ambiente etrusco settentrionale nel tardo orientalizzante e nel primo arcaismo ad imitazione di stoffe lavorate (cfr. M. Cristofani Martelli, RA, 1979, 1, pp. 80-81). La resa del volto e la fila di riccioli che tagliano orizzontalmente la fronte trovano confronti molto precisi nelle cariatidi dei calici di bucchero chiusino del primo quarto del VI secolo a. C. (P. Bocci Pacini, StEtr. XLI 1973, p. 124 ss., tavv. XLII-XLVI), caratterizzate, però, da una acconciatura a trecce che nella nostra statuina mancano o perché nascoste sotto il mantello o per l'evidente stilizzazione del pezzo. Il confronto tra il nostro pendaglio in osso e le cariatidi in bucchero d'altra parte non stupisce, dal momento che pissidi e calici di bucchero chiusini si riportano molto probabilmente a prototipi in avorio (cfr. Riis. 1941, p. 119: Y. Huls, Ivoires d'Etrurie, Bruxelles-Rome 1957, pp. 49-50, n. 33). E sempre ad ambiente chiusino ci riporta la caratteristica compressione della calotta cranica che ritroviamo ben evidenziata in una lastrina di avorio con figura femminile del Museo Archeologico di Firenze (M. Cristofani Martelli. RA, 1979, I, p. 83, fig. 17).

La statuina pendaglio, quindi, e per il tipo di mantello e per la resa dei lineamenti del volto risente di un linguaggio figurativo caratteristico dell'Etruria settentrionale, dove tra le fine del VII ed il primo quarto del VI secolo a. C. va inquadrata l'attività di intagliatori di osso e di avorio (cfr. per il problema M. Cristofani Martelli, RA, 1979, I, pp. 85-86). Fine del VII-primo quarto del VI secolo a. C. (Emilia Talamo).

Antiquarium Comunale, inv. 3648.

Scavi 1978. VII, 5, h. cm. 3,6.

Osso. Esemplare integro con macchie di bronzo.

C 22. Pendaglio-sigillo raffigurante due figure femminili urn:collectio:0001:antcom:s.n. (?).

II pendaglio è costituito da due figure probabilmente femminili, unite tra loro dalle spalle, che poggiano su una base quadrata. Dalla testa di ciascuna delle due statuine parte un elemento forato per la sospensione del pendaglio.

La lavorazione è poco accurata quasi ad intaglio ligneo come si nota nella resa del corpo squadrato, da cui fuoriescono i piedi uniti, e delle braccia lunghissime ed accostate al corpo con mani segnate da tre incisioni verticali.

Il viso, più accurato nella resa in una delle due figurine (cfr. n. C22a), presenta notevoli affinità con il pendaglio precedente (cfr. n. C21). Sulla base quadrata delle due statuine appare un sigillo raffigurante un animale stilizzato - un leone o più probabilmente una pantera - gradiente a sinistra con piccola testa rotonda e coda ad S coricata, che tiene in bocca una gamba umana.

Le statuine unite per le spalle richiamano a livello iconografico alcuni pendagli in ambra di Satricum (G. Bartoloni, in Civiltà del Lazio Primitivo, p. 343, nn. 6-8, tav. XCIV) e di Castelbellino nel Piceno (P. Marconi, MonAL XXXV, 1935, col. 414, fig. 46) mentre stilisticamente si riportano allo stesso linguaggio figurativo del pendaglio precedente (v, scheda n. C21).

La presenza di un sigillo su pendagli di avorio o di osso risulta un elemento molto diffuso in ambiente greco e greco-orientale: a Sparta (R. M. Dawkins, JHS, suppl. 5, London 1929, pp. 228-229, tavv. CXXXIX-CXLVII; pp. 239-240, tav. CLXVIII, 6), ad Efeso (D. G. Hogarth, Excavations at Ephesus. The Archaic Artemisia, London 1908, p. 176, tav. XXVII, 3 a-b) e a Samo (B. Freyer-Schauenburg, Elfebeine aus dem Samischen Heraion, Hamburg 1966, pp. 46-50, n. 10, tav. 1 a), raro invece in Etruria (A. Minto, Marsiliana d'Albegna, Firenze 1921, pp. 235-236, fig. 19). Il tipo del leone con gamba umana, che si ritrova in una gemma pendagilo da Poggio Civitate di fattura molto meno accurata (K. M. Philips, ParPass XXXIII, 1978, pp. 356-357, fig. 1), rientra nel repertorio figurativo dell'orientalizzante recente dell'Etruria, è diffusissimo nella ceramica etrusco-corinzia e nel bucchero tra la fine del VII e la prima metà del VI secolo a.C. (cfr. M. Cristofani, Le Tombe da Mante Michele, Firenze 1969, p. 62, v. anche nota 2 per la bibliografia prec.). In alcuni casi al leone si sostituisce la pantera così per esempio nel vaso Castellani 357 attribuito al pittore della Sfinge barbuta (P. Mingazzini, / vasi della Collezione Castellani, Roma 1930, p. 130, tav. XXIV, 7-8) e probabilmente anche nel sigillo del pendaglio in questione, come si nota nella forma molto piccola e rotonda della testa priva della criniera. Stilisticamente inoltre il motivo così sem­plificato e stilizzato risulta molto vicino a raffigurazioni di animali su buccheri a cilindretto (G. Camporeale, Buccheri a cilindretto di fabbrica orvietana, Firenze 1972, pp. 36-37, tav. IX a), a stampo (A. Minio, StEtr IV, 1930, pp. 22-24, figg. 8-9) e su un kyatos da Poggio Civitate (M. Cristofani-K. M. Phillips, StEtr XXXIX, 1971, pp. 3-4, n. 2, fig. 1, tav. I b). Fine del VII-primo quarto del VI secolo a.C. (Emilia Talamo).

Antiquarium Comunale, s.n.

Scavi 1978, VII, 5; h. tot. cm. 4,3; h. statuina cm. 3; base cm. 1 x 1. Osso. Esemplare integro con macchie di bronzo.

C 23. Pendaglio raffigurante una figura femminile urn:collectio:0001:antcom:17408 .

La statuina femminile dalla struttura esile e slanciata presenta un foro passante all'altezza delle orecchie. Veste un chitone cinto in vita ed un corto himation; le braccia molto esili sono accostate al corpo. Il viso ovale presenta fronte bassa, occhi a mandorla, naso sottile, bocca piccola, mento rotondo e ben evidenziato. I capelli, trattenuti forse da una sottile tenia e resi con sottili incisioni radiali, sono ravviati all'indietro fino all'occipite e scendono poi fino all'altezza delle spalle in un'unica massa sottolineata da incisioni orizzontali e parallele. La parte posteriore presenta la schiena diritta sensibilmente incavata alla base. Il ritmo allungato ed esile della statuina risente del linguaggio figurativo greco-orientale della prima metà del VI secolo a. C. così come la resa morbida dei particolari anatomici e l'interesse calligrafico per la acconciatura, più stilizzata invece la resa del chitone e dell'himation.

Un esemplare identico proviene dalla favissa del Lapis Niger (Gjerstad III, p. 250, fig. 155, 21; F. Coarelli, ParPass XXXII, 1977, pp. 188-189) e pendagli molto simili sono stati rinvenuti nel Piceno (P. Marconi, MonAL, XXXV. 1935, p. 385 ss., tav. XXVI, 1-3) eseguiti, secondo alcuni studiosi (D. G. Lollini, in PCIA, V, Roma 1976, p. 164) da artisti greci operanti in loco. Prima metà del VI secolo a. C. (Emilia Talamo).

Antiquarium Comunale, inv. 17408;

h. cm. 5,1. Osso. Esemplare integro.

C 24. Leone d'avorio.

Placchetta d'avorio piatta su un lato, raffigurante sull'altro un leone eseguito a rilievo, accovacciato su un listello di base, di profilo verso sinistra.

Sul lato piatto e liscio è incisa l'iscrizione che segue, con andamento sinuoso, la linea di contorno superiore della figura. È scritta in alfabeto e lingua etrusca con tratti incerti e poco regolari, da destra verso sinistra: araz silqetenas spurianas.

Si tratta di un prenome al nominativo, araz è già noto proprio a Roma, seguito forse da due gentilizi, forse da un gentilizio e da un patronimico, spurianas è attestato a Tarquinia e a Orvieto: formula onomastica comunque molto rara se non eccezionale.

È questo il testo etrusco arcaico più importante scoperto finora a Roma e il secondo proveniente da S. Omobono: a tali testimonianze che confermano la presenza di genti aristocratiche etrusche a Roma in età regia, va affiancata l'epigrafe incisa su un frammento di bucchero, proveniente dalla stessa area e più o meno coeva, ma redatta in lingua latina (cfr. G. Colonna, in Lapis Satricanus, p. 57, n. 13). La funzione ed il significato della placchetta d'avorio sono poco chiari. La presenza infatti dell'iscrizione sul retro liscio escluderebbe l'ipotesi di una sua utilizzazione come rivestimento di mobili o cofanetti, mentre la formula onomastica, al nominativo, non sembra pertinente ad una dedica di ex-voto.

Simili placche d'avorio lavorate in rilievo non sono rare in depositi votivi o in tombe. Ricordo, da un punto di vista iconografico e stilistico, i due leoni della tomba Regolini Galassi di Cerveteri, probabili rivestimenti, insieme ad altre lastrine d'avorio trovate insieme, di un cofanetto (L. Pareti, La tomba Regolini Galassi, Roma 1947, p. 229, n. 175, tav. XIX; Brown, 1960, p. 135, tavv. XLVIII a-b), mentre, per la presenza dell'iscrizione sul retro, posso citare la piastrina trovata a Cartagine alla fine del secolo scorso con figura in rilievo di cinghiale accucciato (E. Peruzzi, Origini di Roma, Firenze, I, 1970, pp. 22-25 con bibl. precedente) e i frammenti dal "santuario" di Poggio Civitate presso Murlo tra i quali una testa di leone trovata al di sotto della costruzione arcaica.

(E. Nielsen, K. M. Phillips, jr., AJA LXXVIII, 1974, p. 273 e nota 28).

In attesa di una futura, più esauriente esegesi dell'oggetto, va comunque sottolineata la particolare cura posta dall'artigiano nell'evidenziare le belle venature sinuose dell'avorio e nel servirsene per delineare il profilo della belva che risulta pertanto stranamente teso ed elastico; allo stesso gusto sembra obbedire lo scarso numero di particolari anatomici espressi ad intaglio. Primi decenni del VI secolo.

Antiquarium Comunale; inv. scavo VII, 5, 3703; scavi Colini 1977-80; lungh. cm. 6,5; alt. cm. 4; spessore cm. 0,6. Ricomposto da due frammenti con linea d'attacco alla base del collo.

Bibl.: M. pallottino, StEtr XLVII, 1979, pp. 319-325; A. U. prosdocimi, StEtr XLVIII, 1980, p. 240 ss. (iscrizione).

CERAMICA ETRUSCO-CORINZIA

Privilegiata come quantità, tra i prodotti importati dall'Etruria, la ceramica etrusco-corinzia è presente in maniera massiccia tra i materiali della favissa di Sant'Omobono.

Questa vastissima produzione, che occupa tutto il VI secolo, ebbe inizio verso l'ultimo quarto del VII secolo, momento in cui, in Etruria i prodotti vascolari, pur mantenendo certe caratteristiche proprie, cominciarono ad imitare i motivi della ceramica corinzia che, nel corso del VII secolo era comparsa sul mercato etrusco prima importata e poi prodotta in loco.

La ceramica etrusco-corinzia è stata oggetto di studi (Colonna, Szilagyi ed altri) attraverso i quali si è giunti ad una suddivisione in -pittori-, -cicli- e -gruppi- e ad una distinzione in periodi, -iniziale-, -medio- e -tardo-.

I materiali provenienti dalla favissa di Sant'Omobono sono tutti attribuibili all'ultima parte del periodo medio e al periodo tardo rappresentati da pittori delle fabbriche del «ciclo dei Rosoni» e da gruppi che di questo sono una filiazione attardata.

In questo periodo la produzione è di livello nettamente inferiore rispetto ai periodi precedenti con il numero delle forme vascolari limitato e la decorazione alquanto trascurata.

Le forme maggiormente usate sono qui a Sant'Omobono quasi completamente rappresentate: kylikes, coppette, aryballoi, alabastra e patere.

L'argilla è nocciola chiaro-giallognola, molto depurata, decorata con pitture in vernice bruna e sovradipinture in paonazzo e bianco, i particolari salienti di ogni figura o riempitivo sono sottolineati da incisioni.

Le decorazioni più ricorrenti sono gli uccelli acquatici, con occhi e penne resi da incisione, gli animali fantastici come, ad esempio, la sfinge, e soprattutto una serie di riempitivi (piccole decorazioni poste tra le figure a coprire i vuoti) quali le rosette, costituite da una macchia espansa ed incisione a croce all'interno, o altri di forme irregolari resi a vernice con l'aggiunta di incisioni. Le fabbriche tarde di ceramica etrusco-corinzia si localizzano a Vulci (G. Colonna, StEtr XXIX, 1961) o a Cerveteri (J. D. Szilagyi, Atti del X Convegno di studi etruschi ed italici, Firenze 1975) centro in cui si sarebbero stabilite, in questo momento di decadenza, alcune officine vulcenti dedicandosi ad una produzione di modesto livello destinata «ai ceti inferiori della popolazione». Anche gli esemplari provenienti da Sant'Omobono sono quindi di fabbricazione vulcente o ceretana anche se, per la ceramica etrusco-corinzia trovata a Roma e nel Lazio, è stata ipotizzata una produzione locale, in particolare modo per quei manufatti, come i piccoli aryballoi, di più scadente fattura (per il problema cfr. AA.VV., DdA, n.s. II, 1980, pp. 179, 185).

I confronti che si possono stabilire per gli esemplari in esame sono numerosi data la quantità di ceramica etrusco-corinzia presente a Roma e nel Lazio; sempre nell'ambito dei depositi votivi si può ricordare per Roma il deposito del Campidoglio (Gjerstad III, p. 190 ss.), la stirpe di S. Maria della Vittoria sul Quirinale (Gjerstad III, p. 145 ss.) e il deposito presso il Niger Lapis nel Foro Romano (Gjerstad III, p. 223 ss.) e per il Lazio la stipe più antica del tempio della Mater Matuta sulla acropoli di Satricum (Della Seta, 1918, p. 279 ss.).

Lo studio sulla ceramica etrusco-corinzia proveniente dalla favissa di Sant'Omobono offre lo spunto per una osservazione sui rapporti tra ambiente etrusco e ambiente romano-laziale in questo periodo.

II materiale di provenienza etrusca presente a Sant'Omobono e nei depositi votivi di Roma e del Lazio (vedi ad esempio quelli citati in precedenza) non si limita a questa produzione vascolare ma coinvolge anche altre classi di manufatti tra le quali ricorderemo il bucchero, i balsamari plastici e le piccole figure di materiale pregiato.

Con tale massiccia presenza di prodotti etruschi i depositi votivi ben ci esemplificano, dunque, quanto viene detto per la cultura laziale nel periodo che va tra la fine del VII secolo a.C. ed il VI secolo a.C. e cioè che, tale territorio, restituendoci corredi e stipi votive che «potrebbero benissimo essere state rinvenute sulla riva opposta del Tevere» entra ora palesemente ed in modo completo nell'orbita culturale etrusca con un fenomeno di tali proporzioni da indurre il Colonna a parlare di «trionfo della etruschizzazione del Lazio» (Antonella Magagnini).

C 25. Kylix.

Vasca emisferica con labbro svasato, basso piede a disco, troncoconico; anse a bastoncello impostate orizzontalmente sulla spalla. Decorazione verniciata e incisa: vasca interna bruna eccettuata una striscia risparmiata sotto l'orlo, labbro bruno tra due linee paonazze.

All'esterno bruno uniforme comprese le anse tranne due ampie metope nelle quali sono rappresentati due uccelli acquatici in volo verso destra con penne e occhi incisi; per il resto silhouette piena, bruna, con ritocchi di paonazzo sulle ali e nel contorno superiore. Tra gli uccelli una grossa rosetta, una striscia paonazza limita inferiormente la metopa. Attribuibile al «Pittore delle Macchie Bianche». Secondo-terzo venticinquennio del VI secolo a. C. (Antonella Magagnini).

Antiquarium Comunale; inv. scavo VII 5 3855; scavi Colini 1977-80; h. cm. 6,3, diam. cm. 12,3. Argilla depurata nocciola chiaro. Lavorazione al tornio. Vernice paonazza e bruna, uso dell'incisione.

Ricomposta da numerosi frammenti. Lacune integrate sull'orlo e sulla vasca. Vernice in parte caduta.

C 26. Kylix.

Vasca emisferica con labbro svasato, basso piede a disco troncoconico; anse a bastoncello impostate orizzontalmente sulla spalla.

Decorazione verniciata ed incisa: vasca interna bruna eccettuata una striscia risparmiata sotto l'orlo, labbro bruno tra due linee paonazze. All'esterno bruno uniforme comprese le anse tranne due ampie metope nelle quali sono rappresentati due uccelli acquatici in volo verso destra con penne ed occhi incisi; per il testo silhouette piena, bruna, con ritocchi di paonazzo sulle ali e nel contorno superiore. Tra gli uccelli una grossa rosetta, una striscia paonazza limita inferiormente la metopa. Attribuibile al «Pittore delle Macchie Bianche». Secondo terzo-venticinquennio del VI secolo a. C. (Antonella Magagnini).

Antiquarium Comunale; inv. scavo VII 5 3865; scavi Colini 1977-80; h. cm. 8,7; diam. cm. 15,7. Argilla depurata nocciola-rosato. Lavorazione al tornio. Vernice bruna e paonazza, uso dell'incisione.

Ricomposta da numerosi frammenti, tre lacune integrate. Vernice in gran parte caduta.

C 27. Patera.

Corpo emisferico a pareti sottili con pronunciato omphalos al centro, subito al di sotto del labbro due fori passanti.

Decorazione verniciata e incisa. All'esterno sotto il labbro due linee parallele in vernice bruna. All'interno un fregio con due uccelli acquatici in volo verso destra, penne e occhi resi a incisione, e due rosette, contrapposte all'omphalos. con centro e petali sempre ad incisione. Coprono i vuoti altri riempitivi di forma irregolare.

Attribuibile al «Gruppo di Poggio Buco». Secondo-terzo venticinquennio del VI sec. a. C. (Antonella Magagnini).

Antiquarium Comunale; inv. scavo VII 5 3649; scavi Colini 1977-80; h. cm. 3,7; diam. cm. 14,1. Argilla depurata nocciola chiaro. Lavorazione al tornio. Vernice marroncina, uso dell'incisione. Ricomposta da vari frammenti in più punti lacunosa. Vernice in pane caduta.

C 28. Alabastron.

Corpo piriforme allungato con fondo arrotondato, collo breve con labbro piatto fortemente aggettante; piccola ansa impostata sul collo sotto il labbro.

Decorazione verniciata e incisa costituita da due fasce.

Fascia inferiore: animale fantastico alato, forse una sfìnge, con ali, orecchie ed occhi resi ad incisione, ed un uccello acquatico in volo verso destra; sopra e sotto le figure riempitivi a rosetta. Fascia mediana: due uccelli, probabilmente gallinacei, posti in schema araldico, penne piume ed occhi resi ad incisione, con al centro un grosso riempitivo in forma di farfalla; su tutta la fascia rosette. Fascia superiore, attorno al collo, serie di gocce radiali rese in vernice bruna. Spesse linee brunastre decorano l'orlo del labbro, la parte piatta e l'interno della bocca.

Attribuibile al «Ciclo dei Galli Affrontati». Terzo venticinquennio del VI sec. a.C. (Antonella Magagnini).

Antiquarium Comunale; inv. scavo VII 5 3655; scavi Colini 1977-80; h. cm. 15,5; diam. mass. cm. 6,6; diam. bocca cm. 3,4. Argilla depurala nocciola chiaro. Lavorazione al tornio. Vernice marrone e paonazza, uso dell'incisione. Integro. Vernice in più punti caduta.

C 29. Pisside.

Breve labbro ingrossato, obliquo verso l'interno, corpo globulare compresso con basso piede a disco con scanalatura concentrica. Decorazione verniciata ed incisa: sul labbro serie di raggi, sulla spalla tre uccelli acquatici in volo verso destra a silhouette piena bruna con ritocchi paonazzi, occhi e penne incisi. Come riempitivo rosette e grandi macchie triangolari.

Attribuibile al «Ciclo degli Uccelli». Terzo venticinquennio del VI secolo a. C. (Antonella Magagnini).

Antiquarium Comunale; inv. scavo VII 5 3892; scavi Colini 1977-80; h. cm. 9,2; diam. mass. cm. 14; diam. bocca cm. 9; argilla depurata nocciola chiaro; lavorazione al tornio; vernice bruna e paonazza, uso dell'incisione. Ricomposta da numerosi frammenti. Due lacune sulla spada integrante, lacuna sul labbro. Vernice in parte caduta.

C 30. Pisside.

Labbro svasato a profilo angolare, brevissimo collo a gola, corpo sferico compreso con piede a disco internamente concavo.

Decorazione verniciata ed incisa: sul labbro petali incisi decorati alternativamente in bruno e paonazzo; esternamente decorato in bruno. Sulla spalla tre uccelli acquatici in volo verso destra resi in vernice bruna con ritocchi in paonazzo sulle ali, occhi e penne resi ad incisione.

Come riempitivi triangoli dipinti in cui è ricavato un rombo ad incisione. Attribuibile al «Gruppo a Maschera Umana». Terzo venticinquennio del VI secolo a. C. (Antonella Magagnini).

Antiquarium Comunale; inv. scavo VII 5 3868; scavi Colini 1977-80; h. cm. 5,4; diam. mass. cm. 8,5; diam. bocca cm. 4,9; argilla depurata nocciola rosata; lavorazione al tornio; vernice bruna e paonazza; uso dell'incisione.

C 31. Aryballos.

Corpo globoso, breve collo cilindrico con labbro a spessa tesa, ansa a nastro impostata tra labbro e spalla.

Decorazione verniciata e incisa costituita da una fascia, limitata da due linee in vernice bruna, che corre sul punto di massima espansione. Teoria di tre uccelli acquatici in volo verso destra di cui quello al centro più piccolo, occhi e penne resi ad incisione, fra gli animali riempitivi vari anch'essi dipinti e incisi. Sulla spalla e sulla bocca una serie di sottili petali radiali.

Attribuibile al «Gruppo a maschera umana». Terzo venticinquennio del VI secolo a. C. (Antonella Magagnini).

Antiquarium Comunale; inv. scavo VII 5 3650; scavi Colini 1977-80; h. cm. 7,5; diam. mass. cm. 7,9; diam. bocca cm. 5,6. Argilla depurata nocciola chiaro. Lavorazione al tornio, vernice marroncina e paonazza, uso dell'incisione. Integro, leggera lacuna sul labbro.

Vernice in più punti caduta.

C 32. Tazza urn:collectio:0001:antcom:17409 .

Vasca profonda a pareti arrotondate con labbro breve svasato, piede ad anello. La vernice bruna copre tutta la superficie eccettuato un fregio che corre sulla parte alta del vaso. Anteriormente una maschera modellata a stecca con i lineamenti sottolineati in vernice bruna; ai lati di essa due uccelli acquatici in volo verso destra con penne ed occhi resi ad incisione. Su tutto il fregio serie di riempitivi ad X. Attribuita al «Gruppo a maschera Umana». Terzo venticinquennio del VI secolo a. C. (Antonella Magagnini).

Antiquarium Comunale, inv. 17409;

scavi Gjerstad 1959; h. 10,5; diam. cm. 10. Argilla depurata nocciola-rosata. Lavorazione al tornio. Vernice bruna scura. Decorazione plastica, uso dell'incisione.

Ricomposta da vari frammenti, fortemente restaurata.

Bibl.: G. colonna, BC LXXVII, 1959, p. 127 ss.

C 33. Coppetta.

Calice a vasca profonda emisferica con orlo rientrante tagliato obliquamente all'interno. Basso stelo sagomato e ampio piede svasato. Internamente verniciato in bruno ed esternamente il piede, lo stelo e la parte inferiore della vasca. Sul punto di massima espansione motivo di tre uccelli acquatici in volo verso destra in vernice bruna con occhio e penne incise. Come riempitivo una rosetta. Attribuibile alla «Scuola del Gruppo a Maschera Umana». Terzo venticinquennio del VI secolo a. C. (Anonella Magagnini).

Antiquarium Comunale; inv. scavo VII 5 3864; scavi Colini 1977-80; h. cm. 6; diam. cm. 7,5. Argilla depurata nocciola chiaro. Lavorazione al tornio. Vernice bruna e paonazza, uso dell'incisione. Ricomposta da tre frammenti. Manca parte del piede. Vernice in più punti caduta.

C 34. Aryballos.

Corpo sferico, collo cilindrico con labbro a tesa orizzontale, piccola ansa a nastro. Decorazione verniciata. Labbro: larga fascia paonazza; orlo: interno ed esterno in bruno; spalla; petali radiali; punto di massima espansione: tre fasce orizzontali alternate a due motivi a spina di pesce in bruno e paonazzo. Confronta J. Palm, OA VII, 1952, p. 60, tav. VIII, 30. Secondo venticinquennio del VI secolo a. C. (Antonella Magagnini).

Antiquarium Comunale; inv. scavo VII 5 3856; scavi Colini 1977-80; h. cm. 6,8; diam. mass. cm. 5,9; diam. bocca cm. 3,3. Argilla depurata nocciola-rosata. Lavorazione al tornio. Vernice bruna e paonazza. Ricomposto da pochi frammenti, due lacune integrate.

Vernice in parte caduta.

C 35. Alabastron a fondo aguzzo.

Corpo piriforme a fondo aguzzo, breve collo cilindrico con labbro rigonfio aggettante; anse a nastro impostato fra labbro e collo. Decorazione dipinta costituita da cinque linee parallele in vernice bruna che coprono lo spazio compreso tra il punto di massima espansione e le anse; collo e spalla decorate da gocce radiali, anse e bocca, invece, da grosse linee orizzontali.

Confronta, con una sola ansa, Bartoloni, 1972, p. 82, tav. XLIV, fìg. 37; Emiliozzi, 1974, p. 144, tav. XCI, 1978. Questa forma appare in contesti databili nel VI sec. a. C. (Antonella Magagnini).

Antiquarium Comunale; inv. scavo VII 5 3657; scavi Colini 1977-78; h. cm. 11,6; diam. mass. cm. 5,6; diam. bocca cm. 3. Argilla depurata nocciola chiaro. Lavorazione al tornio. Vernice bruna. Lacuna sul corpo restaurata. Vernice in più punti caduta.

C 36. Coppetta.

Vasca poco profonda con orlo rientrante arrotondato. Piede a tromba con alto stelo.

Confronta: Gjerstad, III, p. 229, fig. 141, 13 (deposito votivo presso il Niger Lapis). Metà VI secolo a.C. (Antonella Magagnini).

Antiquarium Comunale; inv. scavo VII 5 3928; scavi Colini 1977-80; h. cm. 7,5; diam. cm. 7,5. Argilla nocciola-giallognola. Lavorazione al tornio. Acroma. Integrato parte del piede.

C 37. Coperchi.

Corpo piatto leggermente conico; al centro piccola presa a cilindretto. Sul corpo serie di linee concentriche in vernice rossa (Antonella Magagnini).

Antiquarium Comunale; inv. scavo VII 5 3919-3921-3927; scavi Colini 1977-80; diam. cm. 8,9, 5,2, 2,9. Argilla depurata nocciola-rosata. Lavorazione al tornio. Vernice rossa. Integri con leggere scheggiature.

BALSAMARI PLASTICI

I piccoli vasi contenitori di unguenti ed olii profumati a volte vengono plasmati in forme umane, di animali o di vegetali. Questo fenomeno, attestato sporadicamente nei secoli precedenti, diventa vistoso alla fine del VII secolo e nella prima metà del VI, grazie alla produzione di diverse officine, alcune delle quali sono state recentemente identificate e situate con buone probabilità a Rodi e a Co-rinto (Higgins, 1959; J. Ducat, Les vases plastiques Rhodiens, BEFAR VIII, 1966; J. Ducat, BCH LXXXVII, 1963, pp. 431-458). Riguardo ai soggetti rappresentati, sembra che, alla base della scelta dei ceramisti, ci siano stati motivi diversi: fattori di moda per alcuni, significati particolari (funerari o culturali) per altri, semplice familiarità con taluni oggetti o animali per altri ancora. Il loro con­tenuto rientra in quel genere di prodotti di lusso costituito da manufatti elaborati o da merci pregiate, quali appunto i profumi, l'olio; tali mercanzie, di provenienze diverse, sono attestate in diversi centri, lungo tutto il bacino del Mediterraneo, spesso trovate insieme in depositi votivi o in tombe. La diffusione dei balsamari plastici di origine greca o greco-orientale, a volte, ha provocato, nei luoghi di importazione, lo svilupparsi di imitazioni ad opera di officine locali. È questo il caso in particolare dell'Etruria dove è attestata una massiccia produzione di tali vasi. Proprio a fabbriche etrusche vanno ricondotti gli esemplari provenienti da S. Omobono tra i quali è possibile notare i tre maggiormente legati alla tradizione corinzia (nn. C 38-C 40), caratterizzati dal pelame espresso a puntinato e da alcune parti verniciate (estremità, giunture, teste). Il n. C 41 invece, eseguito in argilla più scadente, ha il corpo decorato con il tipico motivo ad uccelli delle officine etrusco-corinzie ed è stato attribuito da Colonna alla Scuola del gruppo a Maschera Umana. Il balsamario a forma di melograno, infine, per la particolarità del tipo e della decorazione figurata, si stacca dagli altri e merita un'attenzione particolare (vedi n. C 42). La tecnica di esecuzione dei primi quattro è semplice: al corpo contenitore, eseguito al tornio e di forma allungata con estremità arrotondate, venivano applicati gli arti ed il collo che individuano l'animale, mentre le teste costituivano a volte il tappo mobile del vaso.

I tipi qui rappresentati, la scimmia col suo piccolo, l'ariete, il cervo accosciato, sono molto frequenti in Italia, in particolare in Etruria e nel Lazio e tutti databili nei decenni centrali del VI secolo (J. G. Szilagiy, RA, 1972, fasc. 1, pp. 111 ss., con bibl. precedente) (Margherita Albertoni).

C 38. Scimmia col suo piccolo.

I due animali, eseguiti separatamente e descritti in modo sommario, hanno il corpo cavo, aperto sulla sommità della testa; questa è schiacciata, su collarino, con bocca e orecchie sporgenti e uniformemente dipinta in rosso; il resto del corpo è decorato a puntinato in vernice bruna, con macchie sulle estremità (Margherita Albertoni).

Antiquarium Comunale; inv. scavo VII 5 3857; scavi Colini 1977-80; h. cm. 10,8; argilla depurata, rosata; ingubbiatura; vernice bruna lucida, in parte caduta.

C 39. Cervo accosciato.

Le zampe sono ripiegate sotto il corpo e terminano con la sommaria indicazione degli zoccoli. Nell'alto collo doveva essere inserito un tappo modellato a forma di testa, probabilmente di cervo. La decorazione è in bruno, a puntinato, tranne le ginocchia, la coda e l'orlo del collo, uniformemente dipinte (Margherita Albertoni).

Antiquarium Comunale; inv. scavo VII 5 3862; lungh. cm. 8,5; Argilla depurata rosata; ingubbiatura; vernice bruna lucida.

C 40. Ariete accosciato.

Simile al precedente tranne che per la testa modellata insieme al corpo cavo e aperta superiormente; è caratterizzata da ampie corna ricurve; anche la decorazione in vernice bruna è simile a quella dei precedenti ma testa, collo e spalle sono dipinte uniformemente (Margherita Albertoni).

Antiquarium Comunale; inv. scavo VII 5 3644; scavi Colini 1977-80; lungh. cm. 10,8. Argilla depurata nocciola; ingubbiatura; vernice bruna lucida.

C 41. Ariete accosciato.

Modellato simile al precedente, manca però della testa, spezzata al collo. II corpo è decorato da un motivo ad uccelli e riempitivi irregolari dipinti con vernice rossa (Margherita Albertoni).

Antiquarium Comunale s.n.;

scavi Gjerstad 1959, dal settore C strato 13; lung. cm. 8,5; Argilla depurata rosata, vernice rossa. Spezzato al collo.

Bibl.: gjerstad III, fig. 261, n. 69 e p. 422; G. colonna, BC LXXVII, 1959-60, p. 133, n. 2 (Margherita Albertoni).

C 42. Melograno.

Eseguito in argilla giallastra ben depurata. Attraverso la lacuna del frammento mancante si può vedere la sbavatura di congiunzione delle due metà, eseguite con matrice, nelle quali è stato poi praticato il foro ed applicato il collo con il bocchello. L'esecuzione dei vasi plastici con matrice, anche se è più frequente a Rodi, non manca a Corinto, l'altro grande centro di produzione di questo genere di materiale, ma in un momento più avanzato del VI secolo. Purtroppo la vernice che doveva decorare il pezzo è quasi completamente caduta.

Rimangono poche tracce di un'ingubbiatura e di vernice nera e rossa nella parte superiore. Sono rimasti ben visibili però il contorno ed i particolari incisi nelle figure del fregio superiore. La provenienza del vaso è purtroppo molto incerta: il tipo di argilla è infatti simile a quella usata a Corinto, ma la forma del vaso e del suo bocchello, nonché la tipologia del fiore di lato e i riempitivi a doppi angoli acuti nel fregio figurato, ci portano all'ambiente della Grecia orientale e di Rodi, mentre rimane isolato il binomio leone/lepre e il modo stesso, peraltro poco accurato, di rappresentare i due animali. Inoltre è assai strana la presenza di un fregio figurato su un vaso plastico, generalmente decorato da motivi geometrici o floreali. Soltanto nei prodotti etruschi si trovano decorazioni figurative (per esempio l'ariete n. C41) le quali però rientrano negli ambiti ormai abbastanza noti della produzione etrusco-corinzia. Primi decenni del VI secolo (Margherita Albertoni).

Antiquarium Comunale; inv. scavo VII 5 3651; scavi Colini 1978; h. cm. 7,7; diam. max. cm. 7. Argilla giallastra, depurata; decorazione dipinta e incisa; piccola lacuna.

I BUCCHERI

Una notevole quantità di bucchero è stata rinvenuta nel deposito votivo dell'Area Sacra di S. Omobono; la presenza massiccia di questo materiale, già abbondantemente testimoniata a Roma nei ritrovamenti della Stipe votiva di S. Maria della Vittoria (Gjerstad III, pp. 145 ss.) e dei Depositi del Campidoglio (Gjerstad III, pp. 190 ss.) e del Comizio (Gjerstad III, pp. 225 ss), viene a confermare ulteriormente la piena affermazione del bucchero nel periodo detto «orientalizzante recente» (ultimo quarto del VII-primo quarto del VI secolo a.C.). Tale periodo è caratterizzato, a Roma e nel Lazio, dal progressivo aumento nei corredi tombali e nelle stipi votive di materiale di importazione etrusca, quali il bucchero e la ceramica etrusco-corinzia, che vengono gradualmente a sostituire la ceramica d'impasto di produzione locale. La notevole quantità di bucchero presente in questi contesti ha fatto avanzare l'ipotesi (DdA, n.s. II, 1980, p. 178 ss.) secondo la quale, accanto a prodotti pregiati provenienti dai centri etruschi ed in particolare dalle officine ceretane, esisteva una produzione, di qualità più scadente, di officine locali che si cimentavano nella esecuzione del bucchero utilizzando, per questo, forme a loro già conosciute che erano tipiche della ceramica d'impasto (Carla Martini).

C 43. Olpe

con piede ad echino, corpo ovoide distinto dal largo collo troncoconico, labbro svasato, ansa sormontante a nastro impostata verticalmente sulla spalla e sul labbro. L'olpe, di tipo 1 b della tipologia del Rassmussen (Rasmussen, 1979, pp. 89 ss.), è secondo lo stesso autore una forma originaria dell'Etruria. Tale forma sarebbe comunque derivata da prototipi in metallo (N. Hirschland Ramage, PBSR XXXVIII, 1970, p. 31 ss.) piuttosto che da un tipo di brocca a collo corto di impasto avanzato come afferma il Gjerstad (Gjerstad IV, 1, p. 281). Questo tipo di olpe, pur subendo alcune modificazioni come lo schiacciamento del corpo ed il progressivo allungamento del collo, originariamente decorato da solcature, è documentato a partire dalla seconda metà del VII secolo a. C. e per tutta la prima metà del VI secolo. Oltre che a Roma (Gjerstad IV, 1, fig. 87, 8 e Gjerstad IV, 2, fig. 117, 10-13) la diffusione di questa classe di olpai è testimoniata in tutta l'Etruria (vedi p. es. M. Cristofani, Le Tombe di Monte Michele nel Museo Archeologico di Firenze, Firenze 1969, Tomba F, p. 42, n. 3, fig. 20 e p. 55 nota 6, con confronti con esemplari simili da Cerveteri e Vulci ; Bartoloni, 1972, Tomba VII, p. 88 ss., nn. 52-54, fig. 40).

Il nostro esemplare, per i confronti suddetti e per la mancanza di decorazione incisa, è da porsi nella prima metà del VI secolo a. C. (Carla Martini.).

Antiquarium Comunale; inv. scavo VII 5 3916; scavi Colini 1978-79; h. cm. 11,7; diam. cm. 7,1. Bucchero. Superficie lucidata; piccole scheggiature su tutto il corpo.

C 44. Olpe

di piccole dimensioni con piede ad echino, corpo ovoide, collo troncoconico con labbro svasato, ansa sormontante a bastoncello impostata sulla spalla e sul labbro.

Appartiene alla stessa classe di olpai della precedente, variante 1 c della tipologia del Rassmussen, e valgono, quindi, per essa le stesse osservazioni facendo però notare le minori dimensioni, la diversità del tipo di ansa e la maggiore rotondità del corpo. La qualità del bucchero è meno raffinata e la forma risulta essere più tozza; si potrebbe pensare ad un'imitazione tarda dello stesso prototipo o semplicemente ad una produzione locale del manufatto vista anche la mancanza di confronti al di fuori di Roma dove, invece, si sono trovati tre pezzi, piuttosto simili nelle dimensioni e nella forma, nel deposito votivo di S. Maria della Vittoria (Gjerstad III, fig. 97, nn. 16-18).

La datazione rimane, comunque, nell'ambito del VI secolo a. C. (Carla Martini).

Antiquarium Comunale; inv. scavo VII 5 3808; scavi Colini 1978-79; h. cm. 6,7; diam. b. cm. 4,4. Bucchero grigio. Superficie quasi completamente ricoperta di incrostazioni; scheggiature varie su tutto il corpo.

C 45. Olletta stamnoide

con piede ad echino, corpo globulare, breve orlo verticale, anse a bastoncello appiattite impostate orizzontalmente sulla spalla e forate. Questa forma non è molto usata nel bucchero; a Roma non si sono trovati confronti mentre un esemplare si è ritrovato nella Tomba 62 del Sepolcreto dell'Osteria dell'Osa (Osteria dell'Osa, p. 191, n. 35. tav. LIII B) presentando, però, il corpo rastremato e le anse inclinate verso l'alto. Altri confronti sono nella Tomba 8 di Castel di Decima (M. Cataldi Dini, NS, 1975, p. 359, n. 4 e p. 365) e nella Tomba E di Poggio Buco (G. Matteucig, Poggio Buco, the Necropolis of Statonia, Berkeley-Los Angeles 1951, pp. 38, 47, tav. XIV, 3). Questi confronti fanno parte di corredi datati tra la fine del VII secolo ed il primo quarto del VI secolo a. C. (Carla Martini).

Antiquarium Comunale; inv. scavo VII 5 3757; scavi Colini 1978-79; h. cm. 8,4; diam. cm. 7,1. Bucchero grigio; superficie lucidata. Ricomposto da varie parti frammentarie, manca parte dell'orlo; superficie in parte ricoperta di incrostazioni giallastre.

C 46. Aryballos globulare

con fondo piatto, doveva avere un collo cilindrico ed un'ansa che si impostava verticalmente sulla spalla e sull'orlo. Questa forma si ritrova raramente eseguita in bucchero: gli unici due confronti sono un esemplare trovato nella Stipe votiva di S. Maria della Vittoria (Gjerstad III, p. 148, fig. 97: 21) ed uno con decorazione graffita, datato al primo-secondo quarto del VI secolo a.C., che si trova al Museo del Louvre (M. Bonamici, / buccheri con decorazione graffita, Firenze 1974, p. 190, n. 79, tav. 35 a-b). La forma, derivata dalla ceramica corinzia (CVA Oxford 2, III c, tav. II), è attestata in molteplici esemplari nella ceramica etrusco-corinzia (Bartoloni, 1972, Tomba VII, n. 24, p. 80, fig. 37; Tomba VIII, nn. 19-20, p. 112, fìg. 52). La datazione, in base ai confronti suddetti, si può stabilire intorno al primo quarto del VI secolo a. C. (Carla Martini).

Antiquarium Comunale; inv. scavo VII 5 3806; scavi Colini 1978-79; h. cm. 4,5; diam. cm. 1,1. Bucchero. Mancano il collo e l'ansa; la superficie presenta profonde scheggiature ed è in parte ricoperta di incrostazioni di colore ocra.

C 47. Patera

con vasca profonda, orlo arrotondato ed ombelico centrale, a forma di bottone, corrispondente a cavità esterna. Questa classe di materiale è ben testimoniata a Roma e si ritrova in due varianti, una con vasca profonda ed una con corpo più espanso e vasca meno profonda; queste varianti possono presentare due tipi di ombelico, uno a bottone ed uno conico. Tra i due tipi non sembra esserci una differenza cronologica, entrambi si trovano contemporaneamente nella Stipe votiva di S. Maria della Vittoria (Gjerstad III, fìg. 96, 29-32), nella favissa del Campidoglio (Gjerstad III, fig. 124, 1-6) e nell'Area Sacra di S. Omobono, strato C 13 (E. Gjerstad, NS 1959-60, p. 79, fig. 13, nn. 4-5 e 9-11). Questa forma, derivata da prototipi di metallo originari del Vicino Oriente ed in particolare dell'Assiria (G. Camporeale, La Tomba del Duce, Firenze 1967, p. 44 ss.), non è molto frequente nel bucchero; oltre ai confronti ricordati in precedenza si possono aggiungere quattro esemplari del-l'Etruria (Rassmussen, 1979, pp. 126-7, nn. 1-4) che fanno parte di corredi datati nella prima metà del VI secolo a. C. (Carla Martini).

Antiquarium Comunale; inv. scavo VII 5 3906; scavi Colini 1978-79; h. cm. 3,4; diam. cm. 10,5. Bucchero grigio scuro. Integra, lucidatura in parte caduta.

C 49. Pisside

con corpo globulare compresso, brevissima gola, breve labbro a tesa lievemente inclinato verso l'esterno, base piatta. Questo esemplare, dalla forma molto elegante, non trova a Roma un confronto diretto; troviamo, infatti, nel deposito votivo di S. Maria della Vittoria due esemplari di forma molto più rozza con corpo biconico e maggiormente schiacciato (Gjerstad III, fig. 96, 10-11). Questa forma si trova, invece, frequentemente nella ceramica estrusco-corinzia (Payne, in CVA Oxford 2, III C, tav. 4, nn. 32 e 34) (Carla Martini).

Antiquarium Comunale; inv. scavo VII 5 3909; scavi Colini 1978-79; h. cm. 5,1; diam. cm. 6,3. Bucchero nero. Labbro frammentario, superficie opaca.

C 50. Anfora

con corpo ovoide espanso, corto collo che si restringe verso l'alto, labbro leggermente rivolto verso l'esterno, anse a nastro che si impostano sulla pancia e sul labbro, base ad echino. Questa anfora deriva dal tipo delle «anfore a spirali» di impasto pur presentando una forma più slanciata rispetto a queste; le anfore a spirali hanno una forma molto più tozza, con corpo globulare molto espanso, collo troncoconico corto e sono caratterizzate da spirali incise che decorano la pancia. Tali anfore si ritrovano in tombe veienti dell'ultimo quarto dell'VIII secolo (p. es. Vaccareccia, tomba XIX) e nello stesso periodo si trovano a Pitecusa (G. Buchner, DdA III, 1969, figg. 22-23). Nel secondo quarto del VII secolo troviamo in una tomba di Pratica di Mare (Civiltà del Lazio primitivo, pp. 305 ss., tav. LXXX, nn. 3, 4, 6) una anforetta a spirali di impasto (n, 6) insieme a tre anforette di bucchero che segnano un'evoluzione rispetto alla prima sia nella forma che nella decorazione; vediamo, infatti, che una delle anfore di bucchero (n. 4) ripete ancora il motivo a spirale con, però, ai lati dei fasci di linee incise, mentre le altre due (n. 3) sono decorate, sul corpo, da linee graffile e, sul collo, da ventaglietti.

A Roma si sono trovate anfore di bucchero solo con decorazione a linee verticali incise (Gjerstad IV, 1, tav. 87, 4) mentre non si sono trovati confronti diretti con il nostro esemplare che non presenta alcun tipo di decorazione. Un confronto si è trovato, invece, nella Tomba 177 di Pontecagnano (B. D'Agostino, StEtr XXXIII, 1965, p. 683, tav. CXXXIX b, 4) datata tra la fine de! VII-inizi VI sec. A. C. (Carla Martini).

Antiquarium Comunale; inv. scavo VII 5 3964; scavi Colini 1978-79; h. cm. 10,5; diam. cm. 5,4. Bucchero nero. Scheggiature sull'orlo e sul piede.

C 51. Amphoryskos

con corpo ovoide molto stretto alla base, spalla piatta ed ampia leggermente inclinata verso il basso, piccolo collo cilindrico con alto bordo espanso verso l'esterno, piede con base concava e piccolo ombelico centrale, anse a bastoncello che si impostano sulla spalla e sul labbro. Questa forma deriva da esemplari di produzione corinzia (CVA Oxford 2, III C, p. 67, tav. IV, nn. 2-5-8) che presentano, però, un minore restringimento del corpo alla base; questi esemplari sono datati dal Payne tra la fine del VII secolo e gli inizi del VI. Non si sono trovati confronti con altri esemplari di bucchero né con ceramica etrusco-corinzia; si tratta, quindi, probabilmente di una forma che deriva direttamente dalla ceramica greca e che viene ripresa solo casualmente dalla produzione locale (Carla Martini).

Antiquarium Comunale; inv, scavo VII 5 3807; scavi Colini 1978-79; h. cm. 7,1. Bucchero nero con argilla poco depurata. Rimane solo un breve tratto del labbro e manca un'ansa; la superficie è ricoperta di incrostazioni giallastre.

C 52. Coppa

su alto piede a tromba, bacino imbutiforme, orlo leggermente piegato verso l'interno. Le coppe su piede sono molto diffuse nell'ambito di corredi funerari e depositi votivi dell'Etruria e di Roma. Tali coppe presentano delle varianti che consistono nel diverso profilo del corpo, che può essere continuo o carenato, e nel diverso tipo di piede, a tromba o ad anello. Attraverso i confronti possiamo affermare che queste coppe sono diffuse per tutto il VI secolo; a Roma esse si trovano in contesti quali il deposito votivo di S. Maria della Vittoria (Gjerstad III, p. 152, fig. 97, 3-5). Questa forma caratterizzata dal profilo continuo del corpo e dal piede a tromba, si ritrova contemporaneamente sia nella ceramica d'impasto (M. Bizzarri, St.Etr XXXIV, 1966, Tomba 46, p. 81, nn. 962-963) che nella ceramica etrusco-corinzia (G. Colonna, BC LXXVII, 1959-60, p. 130) oltre che, naturalmente, nel bucchero (P. Villa d'Amelio, NS XVII, 1963, Tomba II, p. 23, n. 32, fig. 22) (Carla Martini).

Antiquarium Comunale; inv. scavo VII 5 3756; scavi Colini 1978-79; h. cm. 8,1; diam. b. cm. 10. Bucchero grigio scuro. L'orlo è scheggiato e la superficie presenta tracce di incrostazioni giallastre.

C 53. Coppetta

su basso piede a tromba, bacino a calotta emisferica, corpo a profilo continuo, orlo leggermente ingrossato internamente. Questa coppa presenta una fattura molto rozza e non rifinita; valgono, comunque, per essa le stesse osservazioni fatte per la precedente (Carla Martini).

Antiquarium Comunale; inv. scavo VII 5 3752; scavi Colini 1977-80; h. cm. 4,8; diam. cm. 8,4. Bucchero grigio scuro. Integra.

LUCERNA

C 54. Lucerna bilicne a corpo aperto urn:collectio:0001:antcom:03675 .

Le pareti arrotondate sono a curvatura continua con il fondo e con l'orlo, che si ingrossa nel punto di giunzione alle pareti e si presenta piatto con anello rilevato al centro: fondo appena concavo e rientrante in corrispondenza di una protuberanza conica, con foro al centro, più bassa rispetto al corpo della lucerna; i beccucci larghi e arrotondati sono plasmati a mano. La lucerna è caratterizzata da una qualità di argilla, anche se più decantata, simile all'impasto c. d. tardo italo geometrico (Cfr. G. Colonna, NS, 1959, p. 227) che fa attribuire il pezzo ad una fabbrica locale, così come la mancanza di precisi confronti tipologici. Lucerne prodotte con la stessa qualità di argilla e quindi di produzione locale sono state rinvenute a Gravisca (F. Boitani, NS, 1971, a, p. 283, nn. 1442, 263, 52) in un grande riempimento con lucerne di produzione greca e greco-orientale, datato tra il 580/570 ed il 480 a. C. VI secolo a. C. (Emilia Talamo).

Antiquarium Comunale, inv. 3675;

scavi 1978 VII 5; h. cm. 3,5.; diam. cm. 10,7. Argilla rosata farinosa ricca di granuli neri. Lavorazione a tornio tranne che per i beccucci plasmati a mano.

Bibl.: A. sommella mura, BollMuseiComRoma, XXIII, 1977, 1-4 p. 11, fig. 9.

MINIATURISTICI E OGGETTI IN TERRACOTTA E BRONZO

C 55. Tazze attingitoio miniaturistiche.

Bassa vasca a pareti troncoconiche con carena, ansa a nastro spesso insellata sul vertice, impostata tra orlo e carena, sormontante. Piede sagomato. Per il tipo confronta la favissa del Campidoglio (Gjerstad III, p. 193, fìg. 124, 14-17) e la stipe di S. Maria della Vittoria (Gjerstad III, p. 151, fig. 96, 1-4) (Antonella Magagnini).

Antiquarium Comunale; scavi Colini 1977-80:

a) Inv. scavo 3961 VII 5; h. cm. 2; diam. cm. 5,1. Bucchero spesso a superficie leggermente lucidata. Esecuzione a mano accurata.

Lacuna sull'orlo, tracce evidenti di lucidatura.;

b) Inv. scavo 3904 VII 5; h. cm. 1,9; diam. cm. 5. Bucchero spesso a superficie leggermente lucidata. Esecuzione a mano accurata.

Integra.

c) Inv. scavo 3902 VII 5; h. cm. 1,8; diam. cm. 4,7. Bucchero spesso a superficie leggermente lucidata. Esecuzione a mano accurata.

Integra, tracce evidenti di lucidatura.

d) Inv. scavo 3903 VII 5; h. cm. 1,9; diam. cm. 5. Bucchero spesso a superficie leggermente lucidata. Esecuzione a mano accurata.

Integra, superficie in più punti rovinata.

e) Inv. scavo 3786 VII 5; h. cm. 2; diam. cm. 5. Bucchero spesso a superficie leggermente lucidata. Esecuzione a mano accurata. Integra, tracce evidenti di lucidatura.

f) Inv. scavo 3809 VII 5; h. cm. 2,2; diam. cm. 4,7. Bucchero spesso a superficie leggermente lucidata. Esecuzione a mano accurata.

Integra, all'interno si conserva inglobato nella terra un astragalo (osso breve del piede).

C 56. Tazza-attingitoio miniaturistica.

Vasca a tronco di cono con alte pareti verticali. Ansa a nastro sormontante impostata tra orlo e carena, provvista alla sommità di due alette laterali. Fondo piano (Antonella Magagnini.).

Antiquarium Comunale; scavi Colini 1977-80; inv. scavo 3907 VII 5; h. cm. 1,5; diam. cm. 4,3. Impasto bruno a superficie nera leggermente lucidata. Esecuzione a mano. Leggere scheggiature sull'orlo.

C 57. Tazze-attingitoio miniaturistiche.

Vasca a tronco di cono con accenno di carena. Ansa trapezoidale con insellatura al centro a formare due apici. Fondo piano. Per il tipo confronta la stipe di Valvisciolo (R. Mengarelli, NS 1909, p. 258, fig. 25) (Antonella Magagnini).

Antiquarium Comunale; scavi Colini 1977-80.

a) Inv. scavo 3682 VII 5; h. cm. 2; diam. cm. 4,2. Impasto rosso con inclusi nere, ampie zone all'interno e all'esterno annerite dalla cottura. Esecuzione a mano. Integra, eccettuata qualche leggera scheggiatura.

b) Inv. scavo 3874 VII 5; h. cm. 4,3; diam. cm. 2. Impasto rosso con inclusi nere, ampie zone all'interno e all'esterno annerite dalla cottura. Esecuzione a mano. Integra, esecuzione alquanto rozza.

C 58. Tazze-attingitoio miniaturistiche.

Base piatta, vasca a tronco di cono con pareti leggermente svasate. Ansa laterale originata dalla pressione di due dita sull'argilla della parete la quale presenta, a sua volta una fattura molto irregolare. Per il tipo confronta la stipe di S. Maria della Vittoria (Gjerstad III, p. 155, fig. 100, 97) ed il deposito presso il Niger Lapis (Gjerstad, III, p. 239, fig. 147, 44) (Antonella Magagnini).

Antiquarium Comunale; scavi Colini 1977-80:

a) Inv. scavo 3824 VII 5; h. cm. 2; diam. cm. 2,5. Impasto rosso ricco di inclusi con ampie zone annerite dalla cottura. Esecuzione a mano poco curata. Leggere scheggiature diffuse. Ansa con piccolo foro centrale.

b) Inv. scavo 3685 VII 5; h. cm. 1,3; diam. cm. 3,1. Impasto rosso ricco di inclusi con ampie zone annerite dalla cottura. Esecuzione a mano poco curata. Integra.

c) Inv. scavo 3830 VII 5; h. cm. 1,4; diam. cm. 1,8. Impasto rosso ricco di inclusi con ampie zone annerite dalla cottura. Esecuzione a mano poco curata. Leggere scheggiature diffuse. Ansa con piccolo foro centrale.

d) Inv. scavo 3832 VII 5, h. cm. 2,6; diam. cm. 2. Impasto rosso ricco di inclusi con ampie zone annerite dalla cottura. Esecuzione a mano poco curata. Integra.

C 59. Olle miniaturistiche.

Corpo cilindrico, cilindro ovoide con spalla più o meno accentuata, orlo dritto o leggermente piegato verso l'esterno. Fondo piano. In alcuni casi presenza di piccole bugne nel punto di massima espansione.

Per il tipo confronta il deposito del Comizio presso il Niger Lapis (Gjerstad III, p. 239, fig. 147, 26, 30, 32) e la stipe di S, Maria della Vittoria (Gjerstad III, p. 155, fig. 100, 85-91) (Antonella Magagnini).

Antiquarium Comunale; scavi Colini 1977-80:

a) Inv. scavo 3834 VII 5; h. cm. 1,5; diam. cm. 1. Impasto rosso arancio con numerosi inclusi neri, ampie zone annerite dalla cottura. Esecuzione a mano. Integro, due bottoncini di argilla subito al di sotto dell'orlo.

b) Inv. scavo 3911 VII 5; h. cm. 2,3; diam. cm. 2. Impasto rosso arancio con numerosi inclusi neri, ampie zone annerite dalla cottura.

Esecuzione a mano. Scheggiature diffuse, due piccole bugne opposte ai lati dell'orlo.

c) Inv. scavo 3739 VII 5; h. cm. 2,5; diam. cm. 2,4. Impasto rosso arancio con numerosi inclusi neri, ampie zone annerite dalla cottura. Esecuzione a mano. Integro, esecuzione rozza.

d) Inv. scavo 3873 VII 5; h. cm. 2,5; diam. cm. 2,5. Impasto rosso arancio con numerosi inclusi neri, ampie zone annerite dalla cottura.

Esecuzione a mano. Integro, esecuzione rozza.

e) Inv. scavo 3870 VII 5; h. cm. 3,7; diam. cm. 42. Impasto rosso arancio con numerosi inclusi neri, ampie zone annerite dalla cottura. Esecuzione a mano. Integro.

f) Inv. scavo 3896 VII 5; h. cm. 4,5; diam. cm. 4,5. Impasto rosso arancio con numerosi inclusi neri, ampie zone annerite dalla cottura. Esecuzione a mano. Scheggiature sull'orlo.

g) Inv. scavo 3893 VII 5; h. cm. 4; diam. cm. 2,9. Impasto rosso arancio con numerosi inclusi neri, ampie zone annerite dalla cottura. Esecuzione a mano. Integro, quattro bugne sul punto di massima espansione.

C 60. Scodelle.

Forma a calotta sferica o emisferica compressa ad orlo rientrante. Per il tipo confronta il deposito del Comizio presso il Niger Lapis (Gjerstad III, p. 239, fig, 147, 42) e la stipe di S. Maria della Vittoria (Gjerstad III, p. 155, fig. 100, 1) (Antonella Magagnini).

Antiquarium Comunale; scavi Colini 1977-80:

a) Inv. scavo 3912 VII 5; h. cm. 2,3; diam. cm. 4,8. Impasto rosso ricco di inclusi, alcune zone annerite dalla cottura. Esecuzione a mano o forse in alcuni casi a ruota lenta. Ricomposta da due metà, esecuzione accurata.

b) Inv. scavo 3779 VII 5; h. cm. 1,2; diam. cm. 4,4. Impasto rosso ricco di inclusi, alcune zone annerite dalla cottura. Esecuzione a mano o forse in alcuni casi a ruota lenta. Integro, superficie molto annerita.

c) Inv. scavo 3881 VII 5; h. cm. 1,1; diam. cm. 3,1. Impasto rosso ricco di inclusi, alcune zone annerite dalla cottura. Esecuzione a mano o forse in alcuni casi a ruota lenta. Integro, superficie molto annerita. Accenno di piede.

C61. Focaccette.

Disco di forma irregolarmente circolare, alquanto spesso; la faccia superiore è decorata con una, quattro, sei o più impressioni digitali o fori. Per il tipo confronta la favissa del Campidoglio (Gjerstad III, p. 196, fig. 125, 1-4) e il deposito del Comizio presso il Niger Lapis (Gjerstad III, p. 239, fig. 147, 10-15) (Antonella Magagnini).

Antiquarium Comunale; scavi Colini 1977-80:

a) Inv. scavo 3947 VII 5; diam. cm. 4,8. Impasto rossastro alquanto rozzo con numerosi inclusi bianchi e neri, ampie zone annerite dalla cottura. Esecuzione a mano, decorazione ad impressione.

Ricomposto da due frammenti, quattro impressioni digitali sulla faccia superiore.

b) Inv. scavo 3894 VII 5; diam. cm. 4,.4. Impasto rossastro alquanto rozzo con numerosi inclusi bianchi e neri, ampie zone annerite dalla cottura. Esecuzione a mano, decorazione ad impressione. Integro, sei impressioni digitali sulla faccia superiore.

c) Inv. scavo 3948 VII 5; diam. cm. 3,9. Impasto rossastro alquanto rozzo con numerosi inclusi bianchi e neri, ampie zone annerite dalla cottura. Esecuzione a mano, decorazione ad impressione.

Ricomposto da due frammenti, quindici fori ottenuti con punteruolo.

d) Inv. scavo 3952 VII 5; diam. cm. 4. Impasto rossastro alquanto rozzo con numerosi inclusi bianchi e neri, ampie zone annerite dalla cottura. Esecuzione a mano, decorazione ad impressione.

Integro eccettuata qualche leggera scheggiatura, una impressione digitale sulla faccia superiore.

C 62. Fornello miniaturistico.

Forma cilindrica ad orli svasati di cui quello inferiore in maniera più accentuata.

Per il tipo confronta la stipe di S. Maria della Vittoria (Gjerstad III, p. 155. fig. 100, 91) (Antonella Magagnini.),

Antiquarium Comunale; inv. scavo VII 5 3771; scavi Colini 1977-80; h. cm. 4,2; diam. cm. 4. Impasto nocciola scuro con numerosi inclusi bianchi e neri, ampie zone annerite dalla cottura. Scheggiato in più punti.

C 63. Peso da telaio.

Forma tronco-piramidale a base rettangolare. Foro passante longitudinale ai tre quarti dell'altezza. Per il tipo confronta, anche se in materiale differente, il deposito presso il Niger Lapis (Gjerstad III, p. 246. fìg. 153) (Antonella Magagnini).

Antiquarium Comunale; inv. scavo VII 5 3953; scavi Colini 1977-80; h. cm. 8,8; largh. cm. 5,4; prof. cm. 3,5. Impasto rosso ricco di inclusi. Esecuzione a mano. Integro.

C 64. Fusi, fuseruole, rocchetto.

Un riferimento preciso alla filatura, e di conseguenza al mondo femminile, è fornito da questi pezzi. Il fuso, appesantito ad una estremità da una fuseruola per mantenere costante la rotazione, veniva impiegato per tendere e ritorcere le fibre allo scopo di ottenere un filo continuo da tessere. È importante il rinvenimento di fusi di legno ancora integri, nonostante la deperibilità del materiale; oltre a quelli qui pubblicati a S. Omobono ne sono stati trovati almeno altri due, uno frammentario e l'altro perfettamente conservato, lungo circa cm. 30 (scavo 1962-64,. strato II C 7).

Per la tecnica della filatura nell'antichità v.: G. M. Crow-foot, in C. Singer, Storia della tecnologia, I, Torino 1954, p. 431 ss.: R. Patterson,. ibid. II p. 202 ss. (Laura Ferrea).

a) Fuso di legno.

Antiquarium Comunale; scavi 1974-75, B 19; lungh. cm. 16,7.

Ricomposto da tre pezzi.

Bibl.: G. pisani sartorio, ParPass XXXII, 1977, p. 57, fig. 18.

b) Fuso di legno.

Antiquarium Comunale; scavi 1974-75, A 20; lungh. cm. 17,6.

Bibl.: G. pisani sartorio, ParPass XXXII, 1977, p. 57, fig. 18.

c) Fuseruola troncoconica.

Antiquarium Comunale; inv. di scavo VII 5 3764; scavi Colini 1978-79; h. cm. 1,1; diam. max. cm. 1,5.

d) Fuseruola troncoconica.

Antiquarium Comunale; inv. di scavo VII 5 3848; scavi Colini 1978-79; h. cm. 1,9; diam. max. cm. 2,1.

e) Fuseruola troncoconica con scanalature verticali.

Antiquarium Comunale; inv. di scavo VII 5 3845; scavi Colini 1978-79; h. cm. 1,2; diam. max. cm. 1,7.

f) Fuseruola troncoconica con scanalature verticali.

Antiquarium Comunale; inv. di scavo VII 5 3761; scavi Colini 1978-79; h. cm. 1,6; diam. max. cm. 2,1.

g) Fuseruola bitroncoconica con nove facce.

Antiquarium Comunale; inv. di scavo VII 5 3758; scavi Colini 1978-79; h. cm. 2; diam. max. cm. 2,5.

h) Fuseruola troncoconica con tratti verticali incisi.

Antiquarium Comunale; inv. di scavo VII 5 3769; scavi Colini 1978-79; h. cm. 1,9; diam. max. cm. 2,6.

i) Rocchetto a parete concava con estremità concave.

Antiquarium Comunale,

inv. di scavo VII 5 3887; scavi Colini 1978-79; h. cm. 2,7; diam. estremità cm. 2,4.

C 65. Fibule.

Dalla stipe di S. Omobono. proviene finora un limitato numero di fibule, per lo più di bronzo (6 in tutto). Anche se il loro stato di conservazione è alquanto frammentario, è possibile ricostruirne la forma originaria, almeno in linea di massima, appartenendo tutte a tipi ampiamente noti e attestati in diverse località d'Italia.

Più diffìcile è invece inserirle in un contesto romano o laziale in quanto poco è noto sull'uso e la distribuzione delle fìbule nel Lazio del VI secolo a.C.

a) La fibula è caratterizzata da tre bottoni che decorano la parte centrale dell'arco, lievemente appiattita e allargata a losanga. L'arco si completava con la molla a doppio avvolgimento da un lato, lo spillo e la lunga staffa all'altra estremità probabilmente desinente con un bottone.

Questo tipo, caratteristico dei paesi medio adriatici nel corso del VI secolo (R. Peroni, Studi di cronologia halstattiana, Roma 1973, p. 72), è attestato anche in Etruria (P. G. Guzzo, Le fibule in Etruria dal VI al I secolo, Firenze 1972, pp. 97-98, tav. IV) e a Roma (Gjerstad III, fig. 149, nn. 14-15, Foro Romano, stipe del Lapis Niger; fig. 101, n. 16, perduto, dal Quirinale, stipe di S. Maria della Vittoria).

Antiquarium Comunale; inv. scavo VII 5 3723; scavi Colini 1977-80; lungh. cm. 3,8.

b), c) Arco, molto ingrossato, decorato nella parte dorsale da scanalature, longitudinali al centro e trasversali alle estremità. Molla a doppio avvolgimento, spillo perduto e lunga staffa frammentaria. Questo tipo di decorazione, già noto nella fase precedente, orientalizzante, durante il VI secolo si trova attestato nelle necropoli Picene (D. G. Lollini in PCIA, V, p. 140).

d) L'arco è formato da due elementi di osso tra i quali si inserisce un segmento d'ambra. Questi sono tenuti insieme da un filo di bronzo interno che uscendo da un lato formava la molla e lo spillo e dall'altro la staffa che doveva essere lunga e forse con bottone terminale. Nel complesso l'arco ha un profilo piuttosto acuto e si allarga sulla sommità a losanga. Le estremità sono sagomate e lievemente ingrossate. Fibule di questo tipo, formate cioè da elementi di osso e d'ambra su anima di bronzo o ferro, sono frequenti in Italia fin dall'VIII a. C. (Siracusa, Satrianum, Gravina di Puglia, cfr. PBSR, XLV, pp. 76-77, n. 5). Durante il VI sono frequenti nelle necropoli del Piceno (cfr. soprattutto per la particolarità dell'arco acuto: G. D. Lollini in PCIA, V, fig. 18) (Margherita Albertoni).

Antiquarium Comunale; inv. scavo VII 5 3706; scavi Colini 1977-80; lungh. cm. 3,1; inv. scavo VII 5 3705; lungh. cm. 4,5. Antiquarium Comunale; inv. scavo VII 5; scavi Colini 1977-80; lungh. cm. 2,3; largh. cm. 1,3.

C 66. Figurine di lamina di bronzo ritagliata.

Si tratta di una classe di doni votivi caratteristica dei santuari laziali, documentata per un periodo che va dalla fine del VII al IV secolo a.C.; da essa deriva, per influsso diretto, la produzione umbra di ex-voto a ritaglio (cfr. Colonna, 1970, p. 107 ss.). Le sagome maschili e femminili sono ottenute ritagliando con le forbici la lamina metallica in maniera piuttosto schematica ed indicando sommariamente a sbalzo o ad incisione gli eventuali particolari.

Le dimensioni delle figurine dei depositi laziali, in una prima fase piuttosto ridotte, fino a 4-5 cm. («Gruppo Campidoglio»: ultimo quarto VII-ultimo quarto VI secolo a.C.), tendono con il tempo ad aumentare, soprattutto nel senso di un allungamento della figura («Gruppo Segni»: seconda metà VI-V secolo a. C.), contemporaneamente ad una maggiore, seppur misurata e schematica, precisazione dei particolari che nell'ultima fase (Norba, stipi dei templi di Diana e Giunone Lucina: V-IV secolo a. C.) diventano più numerosi e sovrabbondanti.

Le cinque figurine da S. Omobono, rinvenute nello scavo 1978-79 lungo il lato posteriore del tempio arcaico, sono, come quelle venute alla luce nella stessa area sacra durante le campagne di scavo 1962-64 (G. Pisani Sartorio ParPass XXXII, 1977, n. 5, p. 56) e 1974-75 (Id., ibid., p. 56 e fig. 17), ben inquadrabili nel primo e più antico dei gruppi citati, che comprende inoltre gli esemplari della favissa del Campidoglio e quelli delle stipi di Tivoli (loc. Acquoria), Valvisciolo e Satricum (stipi antica e recente del tempio di Mater Matuta), ai quali vanno aggiunti quelli da poco scoperti a Campoverde (L. Crescenzi, Archeologia Laziale, I, p. 53, tav. XX, 3). L'identificazione delle cinque figurine come femminili si basa soltanto sulla mancanza di caratterizzazione del sesso maschile, generalmente reso con una linguetta ritagliata tra le gambe. Un foro, probabilmente per l'affissione, è presente nella testa degli unici due esemplari che la conservano (a, e); i lineamenti del volto non sono affatto indicati.

Solo i due pezzi di maggiori dimensioni (d, e) presentano una decorazione ad incisione e a punti sbalzati (Laura Ferrea).

Antiquarium Comunale; scavi Colini 1977-80:

a) Testa a contorno poligonale con foro al centro; spalle quadrate, braccia piuttosto lunghe. Corpo rettangolare, senza indicazioni delle gambe.

Inv. di scavo VII 5 3854; h. cm. 3,8; largh. max. cm. 2,2.

b) Braccia corte terminanti a punta, gambe separate e piuttosto corte con indicazione dei fianchi. Una fascia con decorazione incisa attraversa obliquamente la gamba destra e in basso anche la sinistra: lamina riadoperata?

Inv. di scavo VII 5 3646; h. cm. 2,9; largh. max. cm. 1,4.

c) Mancano la testa e le braccia; gamba sinistra in parte mutila in basso. Superficie ondulata. Corpo stretto, gambe lunghe.

Inv. di scavo VII 5 3647; h. cm. 4,1; largh. max. cm. 1,2.

d) Mancano la testa e un pezzetto della mano e della gamba destra.

Superficie ondulata, con la parte superiore del busto prominente rispetto al resto. La sagoma rende più realisticamente le varie parti del corpo. Punti sbalzati indicano i seni, le ginocchia, i gomiti. Mani piedi piegati in avanti, con dita segnate da linee verticali incise. Lungo il corpo quattro linee sottilmente incise a zig-zag, abbinate a due a due: le due esterne sottolineano seni e fianchi, le altre passano per la parte centrale del corpo.

Inv. di scavo VII 5 3645 h. cm. 3,6; largh. max. cm. 3.

e) Mancano un pezzo del braccio destro e alcune dita del piede sinistro. Testa arrotondata piuttosto grande con foro in alto; braccia lunghe; gambe piuttosto corte; foro sul braccio destro; mani e piedi piegati in avanti con dita segnate da linee parallele incise; decorazione a punti sbalzati lungo il contorno della testa e delle spalle; due punti sbalzati indicano il petto.

Inv. di scavo VII 5 3709; h. cm. 4,7; largh. max. cm. 2,3.

OPERE PLASTICHE E ORIGINALI GRECI A ROMA TRA VI E V SECOLO a. C.

C 68. Urne dalla tomba 193 dell'Esquilino urn:collectio:0001:antcom:00455 .

L'urna cineraria (b), in forma di semplice cassa liscia dalla superficie ben levigata, poggia su quattro peducci angolari. Alla sommità della cassa una modanatura a gola conserva ancora lievi tracce incise ed a pittura rossa e blu, di un kymation ionico ad ovoli e lance. L'interno dell'urna è lasciato grezzo, con cordonature a quarto di cerchio per rafforzare gli angoli. Il coperchio, a forma di tetto a doppio spiovente è decorato da quattro acroteri angolari e da due maggiori in corrispondenza della sommità, la cui parte superiore doveva essere riportata a giudicare dai forellini per il fissaggio che ancora si possono vedere. Altre decorazioni (sfìngi-leoni?) ora mancanti erano poste ai lati degli acroteri sugli spioventi, come testimoniano i piccoli fori e le zone rettangolari non perfettamente levigate. Una decorazione dipinta della quale restano labili tracce ornava i timpani. L'urna fu rinvenuta nel 1888 a Piazza Vittorio, nella zona della necropoli esquilina, sul fondo di una tomba a pozzo con pareti rivestite da blocchi di tufo.

Era contenuta all'interno di una grande cassa di peperino (a) che mostra specchiature rettangolari su ogni faccia e sugli spioventi del coperchio a tetto, ad imitazione di una cassa lignea. Ambedue i contenitori erano completamente privi di corredo.

L'esemplare dell'Esquilino, in marmo greco, può essere messo in rapporto con un ristretto numero di pezzi consimili trovati in territorio etrusco: si conoscono due urne simili da Spina (S. Aurigemma, Scavi di Spina I, 2, Roma 1965, p. 135 ss., tomba 344, tav. 163 a; p. 138 s., tomba 485, tav. 167), ed il coperchio di una terza; un altro coperchio, che doveva appartenere ad un cinerario dello stesso tipo è stato rinvenuto a Cerveteri (L. Cavagnaro Vanoni, in Materiali di Antichità varia V, Roma 1966, p. 132, tomba 128, tav. 26). In particolare il confronto con le urne di Spina, che, in base ai corredi ad esse associati, possono essere datate l'una al 510, l'altra al 490-480, permette di stabilire la collocazione cronologica del pezzo in esame alla fine del VI secolo a. C., mostrando esso caratteristiche (linearità del profilo e cordonature agli spigoli interni) corrispondenti a quelle dell'esemplare spinetico più antico. La fabbricazione greca di questo gruppo di urne è dimostrata oltre che dalla qualità del marmo, anche dal confronto con contemporanei sarcofagi greci, sempre marmorei, molto simili nelle caratteristiche e nella forma « architettonica» (cfr. G. Sassatelli, in bibl., con letteratura precedente). Esse rappresentano probabilmente un precedente della vasta produzione di sarcofagi marmorei che, più tardi, nel IV secolo a.C., furono esportati in tutto il bacino del Mediterraneo, ed il cui centro di fabbricazione, comune forse a quello degli esemplari più antichi, può essere localizzato nell'isola di Paros (M. Martelli, Prospettiva III, 1975, p. 9 ss.).

All'urna dell'Esquilino è connesso uno degli aspetti più interessanti e significativi del Lazio nel VI e V secolo a. C, e cioè la mancanza di testimonianze archeologiche relative a deposizioni funerarie. Tale lacuna dipende probabilmente - come ha recentemente sottolineato G. Colonna (in bibl.) in un suo recente intervento sull'argomento - dall'uso di non accompagnare il defunto con il corredo funerario, cosa che, nella maggior parte dei casi, ha impedito di riconoscere le sepolture attribuibili a questo periodo.

Il fenomeno, che dura per tutto il VI e V sec. a.C., e diminuisce nell'ambito del IV, non può essere connesso con ragioni di natura strettamente economica poiché, proprio in questo periodo il Lazio attraversa un momento di grande floridezza, testimoniato non solo dalla costruzione di importanti opere pubbliche, ma anche dai vivaci scambi commerciali con il mondo greco ed etrusco. Se dunque l'assenza dei corredi funerari non può essere imputata a problemi economici, la causa del fenomeno va ricercata nell'ambito sociale e politico-religioso. Il cambiamento delle consuetudini sepolcrali testimonia da una parte la modificazione dei riti funerari e delle credenze sulla vita dell'al di là, dall'altra l'introduzione di norme che dovevano regolamentare le pratiche funerarie. Le leggi delle XII tavole, emanate alla metà del V secolo a.C., comprendono disposizioni che limitano le manifestazioni di lusso e di ricchezza in relazione ai riti funebri (cfr. van Berchem, in Mélanges A. Piganiol, 2, Paris 1966, p. 744 ss.), e che rappresentano la codificazione delle norme già largamente in uso e dei costumi precedenti. Già altre città della Grecia, tra le quali Atene con il codice di Solone (inizio VI secolo a. C.), prevedevano la limitazione del lusso nei funerali, allo scopo di frenare le manifestazioni propagandistiche del ceto aristocratico dominante, che solo poteva permettersi un tale sfarzo. L'introduzione a Roma di tali norme, probabilmente derivate direttamente dalla Grecia, come afferma Cicerone (de leg. II, 59 ss.), deve quindi essere connessa con la figura di Servio Tullio, propugnatore di una politica antiaristocratica, «democratica», e anticipatore della rivolta che porterà alla caduta della monarchia ed all'istaurazione della repubblica (Maddalena Cima).

Antiquarium Comunale, inv. 455;

dalla necropoli Esquilina, 1888; a) peperino: lungh. cm. 92, largh. cm. 70,5; h. tot. cm. 68; b) marmo greco (insulare?): lungh. cm. 59, largh. cm. 38, h. tot. cm. 42.

Bibl.: NS, 1888, p. 132; G. pinza, BC XLII, 1914, p. 162 (tomba 193); G. pinza, MonAL XV, 1905, p. 184, fig. 78 (tomba LXXII); helbig, Fuhrer (4), II, p. 609, n. 1844; A. M. colini, in Roma medio repubblicana, p. 196 s., n. 281; G. colonna, ParPass XXXII, 1977, p. 131 ss., figg. 4-5 a, b; G. sassatelli, StEtr XLV, 1977, p. 109 ss.

C 69. Guerriero ferito urn:collectio:0001:antcom:03363 .

La straordinaria eleganza formale e la particolare tecnica di esecuzione di questo splendido torso, appartenente ad un gruppo statuario raffigurante con ogni verosimiglianza un episodio di lotta, lo isolano da tutta la ceroplastica arcaica di ambiente etrusco-laziale e lo collocano nell'ambito della produzione greca.

La funzione del gruppo, non può essere definita a causa della estrema frammentarietà del pezzo, l'ipotesi che potesse trattarsi di un donario appare comunque la più probabile.

Rinvenuto a Roma nella zona dell'Esquilino sul finire del secolo scorso, tra la terra di riempimento di una tomba a camera, questo elemento decorativo in terracotta, doveva appartenere ad un luogo di culto esistente presso la porta Esquilina (G. Colonna, ParPass XXXII, p. 134, n. 14).

Della figura del guerriero, di dimensioni di poco inferiori alla metà del vero, si conservano soltanto il torso, ricomposto da due frammenti, e la gamba sinistra dal ginocchio alla caviglia.

Il guerriero atterrato e ferito, da taluni erroneamente ritenuto un'Amazzone, è rappresentato con un'armatura di tipo greco, attico, con corazza, scudo, schinieri. Con grande perizia il plasticatore ha steso un'argilla molto depurata, su un nucleo interno di terracotta grossolana, ottenendo un modellato morbido su cui risaltano i particolari dell'armatura e della leggera tunica che, indossata sotto la corazza, fuoriesce sull'omero sinistro ricadendo sul braccio in pieghe sinuose. Il pittore ha poi completato l'opera dipingendo direttamente sulla superficie dell'argilla i raffinati motivi decorativi. Con vivace realismo è evidenziata la ferita da cui il sangue fuoriesce in rivoli disuguali che suggeriscono una posizione inclinata del busto. L'appiattimento della superficie e la non perfetta rifinitura del lato destro fanno pensare all'esistenza di un appoggio.

La figura è pertanto da ricostruire in posizione di caduta poggiante sul ginocchio destro e con la sinistra distesa, come lascia supporre sulla gamba conservata, una superfìcie ruvida di attacco.

Il grande scudo rotondo con episema stellare è rappresentato in posizione innaturale sull'omero sinistro: si rileva infatti dalla elegante e calligrafica raffigurazione della maniglia, realizzata con corregge intrecciate a formare motivo a scacchiera, che essa nella caduta è sfuggita alla presa della mano lasciando che lo scudo, ancora imbracciato, scivolasse lungo il braccio.

Nella ceramica attica tra la fine del VI e i primi decenni del V secolo si trovano i confronti più calzanti per il tipo di armatura (cfr. ad es. la coppa di Sosias con Achille che medica Patroclo; l'anfora di Euthymides di Monaco, con guerriero che si arma e l'Idria del pittore di Kleophrades con iliupersis, (E. Simon, Die Griechischen Vasen, Munchen 1976, figg. 112, 117, 128-129; P. E. Arias, Mille Anni di Ceramica greca, Firenze 1960, figg. 118, 125; per il modo di imbracciare lo scudo cfr. la coppa di Brygos in P. E. Arias, Greek Vase Painting, London 1962, fig. 139).

Alla coroplastica «corinzia» e all'ambiente magno greco si è invece fatto riferimento (G. Q, Giglioli, BC LXXII, 1946-48, p. 146; G. Colonna, ParPass XXXII 1977, p. 164, e nota 89) per la particolare tecnica di modellazione. Le splendide terrecotte di Olympia (E. Kunze, in Olympia Bericht III, 1938-39, p. 127, fig. 105; Id., in Olimpia Bericht, V, 1952 (1956), pp. 103-127, fìgg. 59-75; Id. in Olimpia Bericht, VI, 1953-55 (1958), pp. 169-194, figg. 66-80), sono indubbiamente il riferimento più pertinente per questa produzione, ma è all'ambiente magno greco che bisogna guardare per individuare il tramite attraverso cui questa tecnica è importata a Roma.

Le fonti antiche testimoniano la presenza a Roma, all'inizio della Repubblica, di due ceroplasti greci Damophilos e Gorgasos (Plinio, Nat. Hist. XXXV, 154) chiamati per la decorazione del tempio di Cerere Libero e Libera (493 a. C.) sull'Aventino. Questo edifìcio non è stato ancora individuato, ma alla officina dei due artisti, dei quali si è ritenuta molto probabile la provenienza da Poseidonia (così il Colonna art. cit.) si è voluto attribuire, per concordanze cronologiche e stilistiche, il torso dell'Esquilino.

La presenza a Roma agli inizi del V secolo di una officina di ceroplasti greci, che firmano in greco le loro opere, riveste un particolare significato per comprendere la temperie culturale della città in questo periodo. Dal punto di vista artistico non si notano infatti flessioni col passaggio dalla monarchia alla repubblica ma anzi il livello delle opere conservate denuncia un rapporto sempre più profondo con il mondo greco e grecizzato dell'Italia Meridionale (Anna Sommella Mura).

Antiquarium Comunale, inv. 3363-03364 urn:collectio:0001:antcom:03364 -03365 urn:collectio:0001:antcom:03365 -03366 urn:collectio:0001:antcom:03366 -03367 urn:collectio:0001:antcom:03367 -03368 urn:collectio:0001:antcom:03368 -03369 urn:collectio:0001:antcom:03369 -03370 urn:collectio:0001:antcom:03370 -03371 urn:collectio:0001:antcom:03371 -03372 urn:collectio:0001:antcom:03372 -03373 urn:collectio:0001:antcom:03373 -03374 urn:collectio:0001:antcom:03374 -03375 urn:collectio:0001:antcom:03375 -03376 urn:collectio:0001:antcom:03376 -03377 urn:collectio:0001:antcom:03377 -3378 urn:collectio:0001:antcom:03378 ;

Torso: h. cm. 36; largh. mass, cm. 24; gamba: h, cm. 23. Terracotta sabbiata con inclusi di pozzolana per l'interno; argilla perfettamente depurata, giallognola per la superficie. Vernice nera e paonazza per la decorazione.

Bibl.: G. Q. Giglioli, BC LXXII. 1946-48, p. 143 ss.; helbig, Fuhrer II, p. 599; G. colonna, ParPass XXXII. p. 162 ss.; Naissance de Rome, Catalogo mostra, Paris, 1977, n. 736.

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